Bob Dylan secondo Timothée Chalamet

A Londra arriva in bici, a Roma a piedi. L’attore newyorchese presenta in Italia A Complete Unknown, dove interpreta Bob Dylan: “Ho avuto cinque anni per tentare di entrare nella mente del musicista più inafferrabile dei nostri tempi”

Alla prima londinese è arrivato con una di quelle bici bianche e verdi che si prendono a noleggio. A Roma invece è arrivato a piedi, dall’hotel vicino piazza della Repubblica, con una giacca e pantaloni di velluto, la camicia bianca con fazzoletto al collo e con quel ciuffo ribelle, gli stivali e gli occhiali neri tanto amati dal grande Bob Dylan, iconico personaggio che ha deciso di portare sul grande schermo, da interprete protagonista a produttore. Timothée Chalamet illumina una giornata romana iniziata a fatica e con i soliti ritardi per via dei lavori per il Giubileo, il traffico e altre ovvietà, portando però la luce dentro il cinema adibito per la première stampa di A complete unknown, il nuovo film di James Mangold in cui l’ex ragazzino lanciato nell’Olimpo hollywoodiano da Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino e da Dune del 2021 di Denis Villeneuve, star indiscussa della Generazione X, interpreta quel ragazzo del Minnesota, raccontandone l’anonimato, l’ascesa e la fama nei primi anni ’60. Nelle nostre sale uscirà il 23 gennaio per Searchlight Pictures, nel cast ci sono anche Edward Norton, Elle Fanning e Monica Barbaro.

“È il ruolo di cui vado più fiero nella vita”, ci dice l’attore newyorchese, 29 anni compiuti a fine dicembre. “È quello in cui mi sono immerso di più, avevo solo quattro mesi per prepararlo, ma per via della pandemia e di altri ritardi accumulati, ho avuto a disposizione cinque anni per tentare di entrare nella mente del musicista più inafferrabile dei nostri tempi e per imparare a suonare la chitarra e l’armonica, a cantare le sue canzoni. Cinque anni per un grande lavoro di cast e il risultato è una versione in cui ognuno di noi ha dato il 150 per cento, il livello di dedizione e concentrazione massimo. E’ difficile raccontare il passato, così come si dice nel film, ma nel film sono riuscito a entrarci, a trovare la verità. Non è stato sempre semplice, ma insieme al regista abbiamo cercato il tono della verità, ricreando quello che è successo come se non ci fosse una camera da presa”.

“Si potrebbero fare due diversi tipi di film su Bob Dylan”, continua Chalamet. “Una master class sul comportamento di un uomo che spesso evitava di incrociare lo sguardo e sul mistero che lo circondava o, in alternativa, una riproposizione ipocrita della sua vita e della sua opera, un greatest hits che in un certo qual modo ignora come la sua carriera non sia stata una traiettoria lineare. Jim (il regista, ndr) ha saputo destreggiarsi abilmente tra la demistificazione di Bob e il rischio di lasciarsi andare a una cieca adulazione”.

Il risultato è la storia di un vagabondo visionario, portavoce di una comunità di disadattati e sognatori.

“La storia di un uomo – precisa Chalamet al Foglio – che ha insegnato a tutti a trovare se stessi. Lui l’ha fatto con la storia, e con l’arte. Bob Dylan ci ha insegnato a non sentirci limitati, a non pensare più a chi siamo o siamo stati, ma ad accettarci, a essere chi siamo anche lottando, qui e ora”.

“Sono andato a trovarlo – aggiunge l’attore – mi sono sentito forse come lui quando incontrò Woody Guthrie all’inizio della sua carriera. Dylan non ha niente degli archetipi che voleva inseguire, ha voluto essere quello che voleva essere, desiderava qualcosa di più grande non sapendo cosa fosse, ma sapendo cosa fare per arrivarci. Io non l’ho fatto certo con la musica, ma con il cinema, facendo i provini, bussando a tante porte che spesso sono rimaste chiuse, non arrendendomi mai e impegnandomi. Ciò mi ha permesso di entrare nel personaggio al meglio e da quel momento ho capito che non potevo più fuggire. Bob era diventato per me una sorta di religione e lo è ancora”.

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