Il tempo conquistato da Tel Aviv con il cessate il fuoco serve a custodire un’orgogliosa voglia di resistere. In questo scenario l’Europa è la grande assente da troppi anni
Comprare il tempo è il destino di Israele tra l’eternità ebraica e il provvisorio del sionismo. Non si sa se Netanyahu sarà riconfermato nelle prossime elezioni. I sondaggi dicono che è difficile, nonostante la grande quantità di tempo che ha saputo comprare per la sua Patria. Ha vinto la Seconda guerra mondiale di Israele, che non aveva mai combattuto per la propria esistenza così a lungo e su tanti fronti, imponendo e subendo con una fermezza churchilliana la tragedia della guerra generata dal 7 ottobre, pagando costi politici altissimi in particolare sulla linea della ideologia umanitaria che ha assediato, con un’esplosione di antisionismo e di antisemitismo anche in occidente, la devastante offensiva di Tsahal. Anche Churchill, nel mondo di allora che era forse più cinico ma meno ipocrita, perse le elezioni subito dopo aver vinto su Hitler. Ma qui le variabili sono molte, la prima delle quali è quella dell’Iran parzialmente piegato ma ancora sulla soglia del nucleare. Si vedrà.
Quel che è certo, a proposito del gentleman impotente Antony Blinken, buon segretario di stato del vecchio Joe Biden che potrà al massimo rivendicare un risultato del successore del suo boss, è che l’idea di preparare il dopo, a Gaza e in Cisgiordania, con la consegna del potere all’Autorità palestinese del vecchissimo Abu Mazen, posto che sia minimamente fattibile, è per adesso, senza garanzie regionali e internazionali serie, un rimettere indietro l’orologio, un dopo che somiglia al prima, quando cominciò la corsa di Hamas verso il 7 ottobre. Un dispendio oneroso di tempo per un paese che ha vinto per comprarlo. L’unica variabile per così dire ottimistica è proprio il cavallo di battaglia del vincitore della guerra, cioè il ruolo dei grandi stati sunniti e in particolare dei sauditi, e la sconfitta o il definitivo ridimensionamento strategico dell’Iran degli ayatollah dopo i colpi subiti da Hezbollah e dal rovesciamento di Assad in Siria.
Biden è stato un amico di Israele e un alleato prezioso, ma riluttante in ragione della propria opinione pubblica messa alla prova dai costi umani della guerra, purtroppo più che reali, e da molti fumosi e interessati equivoci. Ma Trump, fin dagli accordi con i sunniti, dalla liquidazione di Suleimani e dall’ambasciata a Gerusalemme, si è rivelato per una volta tutt’altro che un bullo o un guappo di cartone, sua caratteristica in molti degli scenari internazionali nel primo mandato. Il tema dello stato palestinese per adesso è solo un’astratta rivendicazione giuridica senza basi politiche effettuali, e dopo tutto quello che è successo per generazioni a partire dalla risoluzione dell’Onu che autorizzava la nascita di Israele nel quadro della spartizione del mandato britannico in Palestina (dal terrorismo al fallimento di Oslo alla deriva islamista), può prendere qualche consistenza solo con un riequilibrio generale dei rapporti di forza e di potere nel medio oriente allargato. E solo dopo l’affermazione di un modello di sviluppo e trasformazione che siano fondati su un rinnovamento arabo-islamico nel segno della modernizzazione. Ci vorranno anche qui generazioni per sperimentare questa via. Intanto il tempo comprato andrà custodito dall’orgogliosa voglia di vivere e resistere di Israele e da garanzie internazionali decisive. L’Europa è la grande assente di questo scenario, e da molti, troppi anni.