Ammesso che l’acqua sia in grado di conservare un’impronta delle sostanze con cui è venuta a contatto, questa ipotesi non sarebbe sufficiente a spiegare uno dei capisaldi dell’omeopatia: il rapporto inverso tra efficacia e dose del preparato. Un argomento da abbandonare
Avendo anche recentemente discusso di omeopatia ed omeopati su questa pagina, ed avendo cercato di spiegare come l’omeopatia non sia una teoria in attesa di prove, ma sia contraria alla scienza moderna e sia stata sperimentalmente confutata, ho ricevuto l’ennesima richiesta da parte di qualche lettore di commentare una delle teorie più richiamate da chi l’omeopatia vorrebbe fondare sulla scienza, ovvero quella di una presunta “memoria dell’acqua”.
La cosiddetta “memoria dell’acqua” è l’ipotesi secondo cui l’acqua conserverebbe una sorta di impronta o traccia delle sostanze con cui è entrata in contatto, anche quando queste ultime siano state diluite al punto da essere presenti in quantità così basse da risultare virtualmente assenti secondo ogni risultato della scienza moderna. Tale idea contrasta con i princìpi ormai consolidati che descrivono il comportamento delle soluzioni e le interazioni molecolari, poiché la chimica classica e la chimica fisica insegnano che le proprietà di un soluto, inclusi eventuali effetti chimici o biologici, dipendono dalla presenza effettiva di molecole. Una volta superato il limite di Avogadro, la probabilità di trovare anche solo un’unica molecola del soluto all’interno di un dato volume di soluzione si riduce drasticamente; per questo motivo, non è possibile alcuna influenza specifica dovuta a una sostanza troppo diluita, a meno di non proporre l’esistenza di un ulteriore meccanismo fisico o chimico.
La memoria dell’acqua, in quanto meccanismo alternativo, sottende che l’acqua stessa, pur essendo un fluido estremamente dinamico in cui i legami idrogeno tra le molecole si formano e si spezzano in tempi dell’ordine di picosecondi, riesca a trattenere un segnale legato alla sostanza iniziale. Se un simile fenomeno fosse reale, significherebbe che la disposizione molecolare dell’acqua, o il suo campo elettromagnetico, o qualche altra proprietà ancora non nota, potrebbe registrare e mantenere una “informazione” che poi riprodurrebbe gli effetti del soluto originario anche in sua assenza effettiva. L’eventuale conferma rigorosa di un tale fenomeno richiederebbe una revisione molto profonda delle conoscenze che finora hanno retto l’intera struttura della chimica e della fisica: la teoria elettronica dei legami chimici, la descrizione delle forze intermolecolari, le basi della termodinamica delle soluzioni e perfino alcuni capisaldi della meccanica quantistica dovrebbero essere ampliati o radicalmente modificati per spiegare come l’acqua potrebbe stabilmente “ricordare” l’interazione con molecole non più presenti. Non è che queste revisioni non siano state tentate: la realtà è che i tentativi operati hanno condotto a ben miseri risultati.
Un primo problema è dato dalla natura stessa delle forze note, poiché queste agiscono in modo sempre legato alla prossimità fisica di particelle o campi: legami idrogeno, interazioni elettrostatiche, forze di van der Waals o fenomeni quantistici come l’effetto tunnel richiedono comunque una presenza effettiva, anche solo temporanea, delle entità coinvolte. In aggiunta, in un ambiente acquoso, l’estrema mobilità e la rapida riorganizzazione delle molecole rendono poco plausibile l’idea di una struttura coerente e durevole, non sostenuta da un reticolo cristallino né da forze esterne sufficientemente intense, il che implica che i “domini” che variamente si sono voluti identificare non sono stabili che per tempi piccolissimi o a temperature molto basse.
Un altro tema centrale è quello della verifica sperimentale: nella storia della ricerca sulla memoria dell’acqua sono stati condotti diversi studi che, in alcuni casi, sembravano suggerire risultati positivi, ma non hanno superato i test di replicazione in condizioni di controllo indipendenti e in doppio cieco. Gli esiti più celebri, tra cui quelli descritti da Jacques Benveniste negli anni Ottanta, non hanno trovato conferma e, anzi, sono stati smentiti quando esperimenti simili sono stati ripetuti da altri laboratori con protocolli più stringenti, portando ad identificare negli esperimenti originali tali bias e tali errori metodologici da far sospettare la frode. Solo la ripetibilità sistematica dei risultati, accompagnata da metodologie adeguate a scongiurare bias e a mantenere il cieco sperimentale, può convincere la comunità scientifica della validità di una teoria. Nel caso della memoria dell’acqua, questi requisiti non sono mai stati soddisfatti con successo, nemmeno dagli epigoni più tardivi della teoria della memoria dell’acqua. Il punto su cui mi vorrei soffermare è tuttavia un altro, e spero possa far comprendere appieno la futilità di certe discussioni.
Anche qualora si ammettesse che l’acqua possiede una memoria in grado di conservare un’impronta delle sostanze con cui è venuta a contatto, questa ipotesi non sarebbe sufficiente a spiegare uno dei capisaldi dell’omeopatia: il rapporto inverso tra efficacia e dose del preparato. Secondo l’omeopatia, maggiore è la diluizione di una sostanza, più potente dovrebbe essere il suo effetto terapeutico. Questo principio si manifesta nelle diluizioni indicate con la scala centesimale hahnemanniana (Ch), dove ogni passaggio implica la diluizione di una parte di soluto in 99 parti di solvente.
Ad esempio, una diluizione 60Ch prevede 60 diluizioni consecutive, mentre una diluizione 200Ch ne prevede 200; in entrambi i casi, si raggiungono livelli di diluizione tali da rendere virtualmente impossibile la presenza anche di una sola molecola della sostanza iniziale. Il fatto è che non esiste alcun meccanismo fisico o chimico che possa giustificare come, sparito il principio attivo iniziale e generata un’eventuale “memoria”, un’ulteriore diluizione da 60Ch a 200Ch possa incrementare l’efficacia del preparato. Ammesso infatti che l’acqua conservi una qualche memoria della sostanza originale, non è chiaro in che modo questa ipotetica traccia potrebbe non solo persistere, ma addirittura amplificarsi man mano che la diluizione aumenta drasticamente. Quale effetto, cioè, potrebbe spiegare come l’acqua, acquisita la memoria di qualcosa che è stato diluito 1:100 per 60 volte di fila, possa ulteriormente aumentare la propria efficacia, se si passa a 200 volte? In che modo la presunta memoria, questa fantomatica “informazione” conservata dall’acqua, dovrebbe aumentare con la diluizione?
Qualunque fantasticheria immaginata per superare questo punto si scontrerebbe con un muro invalicabile: l’ostacolo che impedisce di trovare effetti farmacologici di una sostanza in una soluzione, una volta che quella sia diluita a tal punto da non poter esercitare alcuna azione molecolare su alcunchè, assume una nuova forma quando immaginiamo di continuare a diluire un’acqua “con memoria”, perchè neppure una teoria della memoria dell’acqua può di per sé spiegare la cosiddetta “potentizzazione” omeopatica conseguita all’aumentare di diluizione (con o senza succussione).
A meno di non inventare ulteriori ipotesi ad hoc per salvare una teoria già smentita ed un pugno di articoli scientifici di bassa qualità, quando non già ritrattati, il lettore può dunque ben comprendere come nemmeno la prova sperimentale di una memoria dell’acqua potrebbe giustificare le pretese della pseudoscienza omeopatica; è ora, dunque, di abbandonare questo argomento.