Una moneta americana forte non ha mai giovato alla stabilità finanziaria globale. E l’altra variabile americana più importante sono i tassi d’interesse a lungo termine, che rischia di far aumentare i prezzi dei beni importati. Soprattutto delle materie prime
Il dollaro è entrato al galoppo nel nuovo anno. Si è rafforzato non solo nei confronti dell’euro – di circa il 10 per cento negli ultimi tre mesi – ma anche di tutte le principali valute, come lo yen giapponese (dodici per cento), la sterlina inglese (otto per cento), il dollaro canadese (8,5 per cento) e lo yuan cinese (4,5). Rispetto alla media ponderata di tutti i paesi con cui commerciano gli Stati Uniti, il tasso effettivo del dollaro ha raggiunto un nuovo picco, superiore di circa il 15 per cento rispetto a quattro anni fa, quando Trump lasciò la sua prima presidenza.
Anche se è molto azzardato fare previsioni sui tassi di cambio, è probabile che la tendenza prosegua nei prossimi mesi. La principale incertezza, nei confronti dell’euro, sembra essere quando il dollaro varcherà la soglia della parità.
A contribuire a tale andamento è soprattutto la divergenza tra la performance dell’economia americana e quelle degli altri principali paesi. Divergenza che tenderà ad accentuarsi per effetto delle politiche economiche che si appresta a varare l’amministrazione Trump. A cominciare dai tagli fiscali, che dovrebbero stimolare la domanda interna, accentuando le pressioni inflazionistiche e inducendo la Riserva federale statunitense alla prudenza nel ridurre i tassi d’interesse.
In Europa e in gran parte dell’Asia, invece, i rendimenti sulle attività finanziarie sono in calo, a causa del ristagno della domanda interna. Le politiche monetarie continueranno ad essere espansive. In Europa, la Bce ha implicitamente confermato l’aspettativa dei mercati di almeno quattro ulteriori riduzioni dei tassi nel corso di quest’anno. In Cina, la banca centrale ha di recente annunciato nuove misure per stimolare l’economia, in particolare attraverso ulteriori tagli dei tassi d’interesse. I tassi a lungo termine sono già scesi intorno all’1,5 per cento. In Giappone, i tassi a breve non sono più negativi ma la banca centrale sembra esitare a effettuare nuovi rialzi. Il tasso d’interesse a lungo termine rimane intorno all’uno per cento.
In sintesi, non solo i tassi d’interesse rimarranno più elevati negli Stati Uniti rispetto agli altri principali paesi, ma la loro evoluzione relativa potrebbe divergere ulteriormente. Ciò contribuirà ad attrarre capitali oltreatlantico e a sostenere la domanda di dollari. Indipendentemente dalle politiche monetarie, le condizioni strutturali dell’economia statunitense continuano a dare segnali positivi e dovrebbero rimanere relativamente più favorevoli per gli investitori internazionali, anche grazie alle misure fiscali e di deregolamentazione annunciate dal presidente entrante. Per riprendere le parole di Larry Summers, già segretario al Tesoro nell’Amministrazione Clinton e presidente del Consiglio nazionale per l’Economia di Obama, in un recente convegno all’Università di Darmouth: “L’Europa è un museo, il Giappone è un ospizio, la Cina una prigione… dove altro si può investire se non negli Stati Uniti?”. La sintesi di Summers è un po’ caricaturale, ma viene confermata dai dati sull’evoluzione del mercato azionario americano, il cui indice ha guadagnato lo scorso anno circa il 30 per cento, tre volte di più della maggior parte degli altri paesi.
Dato per scontato il rafforzamento del dollaro, per il resto del mondo, in particolare l’Europa, è necessario capirne le ripercussioni. Un euro più debole potrebbe migliorare la competitività esterna delle esportazioni europee, ma solo verso gli Stati Uniti, se le altre principali valute di deprezzano anch’esse in linea con l’euro. D’altro canto, una moneta americana forte fa aumentare i prezzi dei beni importati, soprattutto delle materie prime, che vengono quotate in dollari. Ciò potrebbe alimentare nuovamente l’inflazione in Europa e indurre la Bce a rallentare la riduzione dei tassi.
Oltre al dollaro, la variabile americana più importante per i mercati internazionali è rappresentata dai tassi d’interesse a lungo termine che, a causa del ruolo centrale del dollaro nel sistema finanziario, condiziona i rendimenti delle altre principali valute. Dal settembre scorso i tassi americani a lungo termine hanno ripreso a salire, soprattutto alle scadenze più lunghe – oltre i dieci anni – nonostante i tre tagli effettuali dalla Federal Reserve per cento punti base. Questo riflette le aspettative di maggior crescita ma anche le preoccupazioni per il debito pubblico americano in forte aumento. L’impatto sugli altri mercati è restrittivo. Un dollaro forte e tassi d’interessi americani in rialzo, soprattutto a lungo termine, non sono mai stati una buona notizia per la stabilità finanziaria internazionale. Bene prepararsi.