Sergio Rubini: “Grasso stronca la mia serie su Leopardi, ma sbaglia. Le serie Rai fanno servizio pubblico”

“Leopardi – Il poeta dell’infinito” è la serie Rai che piace al pubblico ma non ai critici. Share travolgente e giudizi impietosi. Parla il regista Sergio Rubini

“Vorrei dire una cosa, a costo di sembrare un populista”. Prego. Dica pure. “Giacomo Leopardi è la nostra storia. È la storia della letteratura e dell’Italia. E la storia d’Italia siamo noi a doverla raccontare. In questo caso, quindi, è la Rai”. Noi, l’Italia, la Rai… Populismo o patriottismo? “Si tratta più che altro di dare valore al patrimonio italiano, di credere nel pubblico. E conseguentemente nel servizio pubblico. Che oggi è svolto da serie tivù come la mia”. A parlare al Foglio è Sergio Rubini, l’attore e regista che, dopo il teatro e il cinema, approda ora in televisione con la serie-evento “Leopardi – Il poeta dell’infinito”.


Andate in onda il 7 e l’8 gennaio, le due puntate hanno toccato picchi di share notabili (oltre il 20 per cento) generando l’hashtag #leopardi su Instagram e su X. A riprova del fatto che la fiction sta alla Rai come il Grande Fratello a Mediaset. E cioè come un richiamo aconfessionale, intergenerazionale, interclassista.



La serie è stata un successo, si diceva, e il successo parla (o dovrebbe parlare) da sé. Eppure Rubini sente il dovere di puntualizzare, di rimarcare. In qualche modo di rivendicare. Giacché “in un paese fratricida – così dice – Rai Fiction ha assolto alla sua funzione: valorizzare il patrimonio, in questo caso Leopardi, secondo una logica di unità”. Unità? “Non di unità gramsciana. Non intendo questo. Ma di fiducia nel pubblico al di là dei cedimenti politici, ideologici, partitici. Insomma, al di là del governo di turno”. Chiaro. Ma allora TeleMeloni? “Ma per carità. Io sono un regista: lasciatemi fare il regista. Detto questo, per mia esperienza diretta TeleMeloni non esiste. RaiFiction ha coprodotto, insieme a Beppe Caschetto, la mia serie. Interferenze politiche? Zero”.



Grande successo di pubblico, l’abbiamo detto. E tuttavia non di critica. Ma com’è giusto i critici fanno i critici. E quindi stroncano. Aldo Grasso, sul Corriere della Sera, non sapeva da dove cominciare. Mancava tutto, ha scritto: mancava “la recitazione, la tensione narrativa, l’interpretazione intesa come la capacità di andare al cuore degli argomenti trattati e di non accontentarsi della superficie”. Secondo Grasso il suo tentativo di svecchiare Leopardi – togliendogli persino la gobba – si è tradotto in parodia. Spietato, eh? “I critici fanno i critici, l’ha detto lei. E io non questiono su giudizi di merito. Penso però, nel metodo, che la mia serie sia uno spartiacque”. Perché lo pensa? “Perché rende un servizio, lo ripeto. Va oltre gli steccati politici, partitici, ideologici. I critici mi stroncano ma quello che ho fatto io è quello che dovrebbe fare la Rai: misurarsi con il mercato, con Netflix, e poi divulgare, far conoscere, incuriosire giovani e meno giovani su uomini che non siano solo preti o commissari. Ma anche scrittori e intellettuali”.


La letteratura formato fiction, però, non è una novità. Viene in mente “La Storia” di Elsa Morante diretta da Francesca Archibugi nel 2024. Ed è poi in arrivo “Il Conte di Montecristo”, che andrà in onda nel 2025. “A maggior ragione. Il servizio pubblico, oggi, è in capo alle serie Rai”. “E comunque – prosegue Rubini – non sto dicendo che la mia serie sia uno spartiacque, ma certo ho portato sul piccolo schermo qualcosa che verrà venduto anche all’estero. Compreso un volto non televisivo come quello del ventisettenne Leonardo Maltese, che interpreta il poeta”. Non vorremmo insistere, ma Grasso dice che questo suo Leopardi pop sfocia in involontari esiti parodistici. “Grasso dice tante cose”. E infatti, ponendo un tema che prende la piega del fenomeno di costume, parla poi degli attori affetti dalla tentazione della regia. “Peccato che io abbia diretto il mio primo film nel 1990. Ne ho diretti 15”. Ma questa è la sua prima esperienza con la tivù. “Sì, e penso che operazioni come questa testimonino che credere nel pubblico televisivo paga”. Un pubblico non solo di casalinghe e pensionati, quello della Rai. È così? “Un pubblico vario. E soprattutto, al di là degli snobismi metropolitani, molto curioso e per niente ignorante”.

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