Era nato a Trieste, aveva giocato a lungo alla Roma, al Milan arrivò nel 1967, a trentadue anni e un po’ per caso. Fu il portiere della seconda Coppa dei Campioni dei rossoneri. A Milanello per tutti era il Longo
Così, l’8 gennaio 2025, è morto il Ragno Nero. Dieci anni oggi, il 9 gennaio 2015, se n’era andato il suo amico Anguilla. Il 20 maggio del 2024 era toccato a Volkswagen, e qualche mese prima, il 22 settembre 2023 al Basletta. Come i santi dal calendario cadono le figurine della nostra infanzia che avevano gli stessi soprannomi degli amici del cortile o dell’oratorio.
A dire il vero Fabio Cudicini, il portiere della seconda Coppa dei Campioni del Milan, 1968-69, insieme ad Angelo Anquilletti, Karl-Heinz Schnellinger e Giovannino Lodetti, era stato “battezzato” Ragno Nero dai cronisti inglesi che in quella stagione di Coppa, tra quarti di finale (a Glasgow, contro il Celtic) e semifinale (a Manchester, contro lo United). Soprattutto al Celtic Park, il 12 marzo 1969, Cudicini aveva parato tutto, perché tutto c’era da parare per difendere l’1-0 che Pierino Prati – detto “la Peste” – aveva segnato dopo una dozzina di minuti: un gol che era un tesoro, dal momento che all’andata a San Siro era finita con un precario 0-0. Le mani-forziere del portiere vestito di nero custodirono quel tesoro con eroica quanto misurata resistenza. I cronisti della stampa scozzese, da Hugh Taylor del “Daily Record” a Gair Henderson del “Evening Times”, scrissero che Cudicini rendeva semplici le parate più difficili. Vestiva quella sera una calzamaglia nera sotto il completo interamente nero di estremo difensore che facevano sembrare più infinito il suo metro e novanta e rotti di altezza: da quel momento fu per il mondo The Black Spider, o piuttosto un Ragno Nero II, dopo che il capostipite della dinastia dei portieri aracnidi era stato, qualche anno prima, l’immenso Lev Yashin, primo e, ancora oggi, unico estremo difensore a vincere un Pallone d’Oro. Fabio Cudicini tirò giù la saracinesca anche nella semifinale di ritorno contro a Manchester, contro uno United pieno di “palloni d’oro”, giustappunto, Denis Law (1964), Bobby Charlton (1966) e George Best (1968), ma che nulla poté contro la Banda del Paròn, trascinata da uno scatenato Pierino Prati: 2-0 a San Siro – ammutolito per l’infortunio di Rivera, azzoppato da quella carogna di Law – e 0-1 all’Old Trafford. Poi arrivò la finale del Bernabeu, contro i nascenti lancieri di Cruijff: dove le magie, di ricamo e di sciabola, del Golden Boy, di Angel Benedicto Sormani e ancora una volta del Pierino da Cinisello, spettinarono i capelloni olandesi: “Prego, tornate un’altra volta!” ( loro non se lo fecero dire due volte e tornarono…).
Ma a Milanello Fabio Cudicini era il Longo. Così lo chiamava Nereo Rocco, triestino come lui, e che con Guglielmo, detto Mino, Cudicini aveva giocato nei rossoalabardati degli anni Trenta, quelli messi in versi da Umberto Saba.
Era arrivato in rossonero nell’estate del 1967, quando Rocco tornò al Milan dopo la parentesi a Torino, sponda granata. Ci arrivò un po’ per caso: aveva già trentadue anni e, dopo essere cresciuto nelle giovanili dell’Udinese, una quasi decennale esperienza a guardia della porta giallorossa della Roma, con cui aveva pure vinto una Coppa delle Fiere (1961: primo trofeo internazionale di una squadra di club italiana) e una Coppa Italia (1964). Il Milan lo aveva prelevato dal Brescia dove aveva giocato una stagione senza particolarmente brillare. Ma il Paròn voleva gente d’esperienza: insieme al Longo, arrivò dal Lecco Saul Malatrasi (29 anni) e, soprattutto, Kurt Hamrin (33 anni), l’Uccellino. Si disse che lo avessero acquistato dalle Rondinelle soltanto per girarlo, nella girandola di calciomercato, al Mantova e assicurarsi così le prestazioni di un giovane e promettente Dino Zoff. Ma non se ne fece nulla, niente furlan, ma consolidamento della tradizione tergestina in rossonero, da Maldini in poi.
Nella prima stagione Rocco non sembrava così convinto del Longo, tanto che lo alternò spesso con Pierluigi Belli, che aveva nove anni di meno. Il Paròn aveva qualche perplessità sulla determinazione del suo concittadino. La leggenda dice che gli abbia detto: “I me ga dito che no ti ga più voia del lavorar. No sarà che ti gà pasado tropi ani a Roma?”. Ma alla fine ebbe la meglio la “longitudine” del Longo, che a Glasgow divenne Ragno Nero.
Al Milan Cudicini restò cinque stagioni, fino al 1971-72, ultima sua stagione giocata: giocò 183 partite, vinse uno scudetto (1967-68), una Coppa dei Campioni (1968-69), una Coppa delle Coppe (1967-68), una Coppa Intercontinentale (1969). Nella mattanza della Bombonera, contro l’Estudiantes, rimediò anche un bullone in testa. E qui diventa di nuovo personaggio della “commedia goldoniana” del Paron. È lui che si accorge per primo che è successo qualcosa: “Dotòr, el Longo xe in tera – dice al Ginko Monti, il medico sociale già preso da super lavoro quella sera – Xe cascà solo”. Cudicini ha preso una botta in testa e ha conati di vomito. Viene medicato sommariamente e, malgrado il trauma cranico, rimane in campo a fare prodezze. Tanto che Rocco torna da Monti e ribadisce: “Te gavevo dito che no xera grave, xe cascà solo”.
A fine carriera Fabio Cudicini aveva avviato a Milano, città dove ha scelto di mettere radici, una ditta di tappezzeria e moquette, e poi di pavimenti e rivestimenti, scegliendo come logo un ragno nero. Mi è capitato più volte di vedere dei furgoncini in zona via Stromboli, dove aveva la sede. Un mio amico milanista, e cultore della materia, si è fatto fare da lui la ristrutturazione dell’appartamento solo “per avere un pezzo di quel Milan” dentro casa. E chissà quanti altri lo hanno fatto, o magari solo pensato.
Cudicini, Anquilletti, Schnellinger… A ognuno le sue filastrocche. E questa era la mia.