L’equivoco di chi considera l’università solamente un luogo di ricerca

In molti corsi di laurea si va per apprendere una professione qualificata, non per diventare ricercatori. In un paese che seleziona per cooptazione ottocentesca i docenti, occorre colmare i danni i creati dalla legge 382 e introdurre sistemi meritocratici

Negli ultimi giorni il Foglio ha pubblicato due interessanti interventi sull’università, sui suoi sviluppi e sul suo rapporto con la società, scritti da due storici. Il primo articolo, di Giorgio Caravale, ha messo in luce come il dilatarsi della distanza tra mondo universitario autoreferenziale e chiuso in (pseudo) ricerche scientifiche e una società sempre più disinteressata alla conoscenza vada sanato attraverso una divulgazione qualificata, una formazione – non ricerca – di alto livello, il conferimento di maggiore importanza alla saggistica di qualità, eccetera. Questi sono aspetti che, di fatto, l’università contrasta o non agevola e sono, invece, urgenti e condivisibili. Il secondo articolo, pubblicato il 6 gennaio a firma di Andrea Graziosi (docente che fa parte di un gruppo di revisione della legge 240), auspica un’università che va in senso opposto al tentativo di colmare questo divario proponendo soluzioni sulle quali, pur rispettandone i contenuti, credo si possa dissentire.

Per Graziosi, sintetizzo, la storia non è qualcosa che l’umanità scrive come esito di una lotta per la cultura, bensì qualcosa di ineludibile: il pragmatismo, la ricerca scientifica sviluppata in un orizzonte globale e l’uso della “colonialista” lingua inglese sono un futuro ineludibile (e, nell’immediato, lo sono). In un mondo che raggiunge gli 8 miliardi di popolazione i 700 milioni di europei, e tanto più i 60 milioni di italiani, non possono che abbandonare la tradizione sviluppata dal Seicento in poi e adattarsi a questo modello globalista: l’università europea, e quella italiana in particolare, non può sviluppare modelli alternativi bensì adattarsi alle condizioni per attrarre studenti d’eccellenza (non scarti) da tutto il mondo. Di conseguenza, Graziosi indica una serie di punti di vista rispettabili, ma sui quali mi sentirei di dissentire.

Il primo è che l’università non deve fornire una coscienza critica ai giovani, ma solo un apprendimento al passo con le conoscenze scientifiche più avanzate. E’ una visione abbastanza pilatesca in favore del docente-scienziato e del tutto non rispondente alla preparazione e alle aspettative di 18enni e relative famiglie che in Italia (come anche negli Usa non Ivy-League) non sono in grado di apprendere e, tantomeno, di partecipare a ricerche cosiddette “scientifiche”. In primo luogo, l’università ha livelli diversi: la ricerca si fa in dottorati, scuole di specializzazione e ricercatori, non nella magistrale e ancora meno nel triennio, in cui sono impegnati la maggioranza degli studenti a scopi formativi. In secondo luogo, in molti corsi di laurea si va per apprendere una professione qualificata, non per diventare ricercatori. Fare l’architetto vuol dire imparare a costruire non fare ricerca su biomateriali; in Medicina ci si prepara a fare il medico di base, di pronto soccorso eccetera non il ricercatore di trapianti d’organi; in Scienza delle comunicazioni (che scienza non è) si dovrebbe apprendere qualcosa su come fare i giornalisti/comunicatori; in Letteratura italiana si fa train the trainer non ci si prepara a diventare Manzoni!

Compito dell’università, scrive Graziosi, non è né la coesione sociale né la diffusione della conoscenza, ma l’insegnamento di ciò che emerge nei centri di ricerca più avanzati. L’università che deve restare aperta a tutti – non di massa – dovrebbe essere semplicemente meritocratica, cosa che non è a partire – e questo Graziosi non lo dice – dalla selezione del corpo docente, che avviene secondo una costruzione del curriculum studiorum completamente orchestrato dalle baronie, fortificatesi dopo la Legge Gelmini. Si può portare in cattedra qualsiasi figlio di…, amante di…, amico di… purché abbia una famiglia alle spalle che lo mantenga per una decina d’anni (altro che ascensore sociale!), tempo necessario per farlo pubblicare, con altri, in inglese (i contenuti contano meno), su riviste di classe A con peer-review del tutto orchestrate dai docenti. Di contro si chiederebbe a diciottenni che non sanno nemmeno quando è nato lo stato italiano di non essere lì per apprendere, bensì per ricercare, non per imparare un lavoro bensì per andare per archivi e provette al servizio della ricerca. E si chiede all’università di “non generare ricadute significative” sulla società (sebbene oggi conti un pochino l’impegno di “Terza missione”): invece, sarebbero proprio le ricadute sulla professionalità dei laureati e sulla società a valutare la qualità di una università. Giusto sanzionare gli atenei “che non hanno dato prova di affidabilità”: ma chi li valuta? Certo non l’attuale sistema Ava. E poi chi è capace di far chiudere un ateneo? Come reagirebbe la politica locale?

Non solo quei parrucconi dell’Accademia della Crusca (“Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica”, a cura Nicoletta Maraschio e Domenico De Martino) ma studi internazionali (vedi Michele Gazzola lecturer in Public Policy and Administration alla Ulster University di Belfast) hanno mostrato un doppio problema: l’abbandono dell’insegnamento nella propria lingua porta alla costruzione di un mondo uniforme, che perde le differenze culturali, motore della crescita. Inoltre, pensare (e scrivere) non nella lingua madre svantaggia tutti i non nativi inglesi e sfavorisce la capacità analitica nell’approfondire i problemi: ci parliamo tutti, ma superficialmente. Ricerchiamo tutti, ma in maniera banale.

Se allora, come sostiene Graziosi, l’università italiana deve puntare solo sui “settori più forti” (l’autore non li indica, ma sembra intendere principalmente gli studi Stem), nello scacchiere globale l’Italia dovrebbe puntare sull’insegnamento delle pratiche artistiche, dove è primatista come tradizione, e insegnarle in lingua italiana senza complessi da Post-colonial studies. Di più, il corpo docente non andrebbe selezionato secondo le norme Anvur, che scimmiottano un sistema anglosassone su base scientista, bensì Afam, tenendo conto anche della qualità dell’impatto sociale esercitato dal docente.

Ricordo che per le norme Anvur, Renzo Piano non sarebbe ritenuto in grado di insegnare progettazione agli studenti di Architettura, Silvio Berlusconi come si fa una televisione e così via… Così come “la didattica a distanza produce sempre risultati inferiori a quella in presenza” (Graziosi), docenti mai usciti dalla costruzione dei loro curricula universitari producono studenti incapaci di relazionarsi con la società e con il mondo delle professioni.

Non vedo come si possa pensare che in un paese con tremila miliardi di debito, in crisi demografica, che seleziona per cooptazione ottocentesca i docenti, che ha un enorme bisogno di divulgazione e formazione culturale ed estetica, l’università possa essere il riflesso di ricerche effettuate in laboratori hi-tech delle Stem, dove si insegna in inglese per sottrarre studenti da Stati Uniti e altri paesi. Prima di avvicinarsi a questo obiettivo, nemmeno condivisibile, si dovrebbero colmare danni i creati dalla legge 382, introdurre sistemi meritocratici che supererebbero anche il fatto che, perso il valore legale del titolo di studi, esso non avrebbe riconoscimento all’estero: se tu esci da un organismo di valore poco importa all’azienda privata straniera il riconoscimento legale! Di contro, il risultato sarà che un sempre maggior numero di famiglie (benestanti) si rivolgerà non alle università bensì alle scuole aziendali private sicure che, finito un periodo di apprendimento estremamente pratico, i loro figli troveranno lavoro. Uno dei grandi problemi dell’università italiana sono proprio i professori universitari.

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