Intervista al pianista, che ha da poco festeggiato 50 anni di carriera: “I bambini devono essere educati alla musica dalle scuole elementari, più all’ascolto che all’esecuzione con il famigerato flauto dolce. È un insegnamento che concorre alla crescita dell’uomo, perciò non può interessare solo a chi pensa di intraprendere la carriera musicale”
Ha festeggiato cinquant’anni di carriera il 15 dicembre scorso, solista nel concerto K466 di Mozart con la Nuova Orchestra Scarlatti. Il musicologo Paolo Isotta lo definì “poeta del pianoforte”, ma Francesco Nicolosi, catanese di nascita e napoletano d’elezione, è considerato anche massimo custode dell’arte di Sigismund Thalberg, il gran rivale di Franz Liszt, l’altra metà del virtuosismo ottocentesco alla tastiera.
A Thalberg, capostipite della scuola pianistica napoletana, Nicolosi ha intitolato assieme agli eredi dell’artista un Centro Studi Internazionale e un Premio a cadenza biennale oltre a numerose incisioni discografiche, fino all’integrale delle parafrasi d’opera italiane. Eppure è Vincenzo Bellini che segnò il destino del maestro Nicolosi grazie a suo padre, uno di quei “patiti” che la musica rapiva pur “sanza intender l’inno”.
Suo padre suonava?
Per nulla. Faceva il sarto.
E Bellini?
Era il grande amore. Mi portava a vedere le sue opere e collezionava tutti i libri che lo riguardavano. I due pilastri della mia fanciullezza sono stati Bellini e sant’Agata patrona di Catania.
Fu suo padre ad avviarla allo studio?
A cinque anni mi mandò a lezioni di piano sognando che un giorno avrei eseguito Bellini. Ignorava che non aveva scritto per pianoforte. Eppure il destino avrebbe dato ragione a mio padre, perché più tardi avrei scoperto le parafrasi d’opera e suonato pure la sua musica. Sono l’unico pianista ad avere vinto il “Bellini d’oro”, nel 1994.
Ma con Bellini non è finita.
No, perché poi fui nominato direttore artistico del Teatro Massimo Bellini di Catania, un incarico che ho ricoperto dal 2015 a tutto il 2019.
Per la gioia di suo padre.
Purtroppo non fece in tempo a vederlo, ma a pensarci col senno di poi ho sempre visto nel suo desiderio di quand’ero piccolo una premonizione.
L’impronta di Bellini torna anche nel rapporto con Napoli, dove si trasferì.
Ci andai per perfezionarmi con il maestro Vincenzo Vitale, poi m’innamorai della città e ho insegnato anche al Conservatorio di San Pietro a Majella, proprio dove Bellini aveva studiato.
Quanto ne avverte la presenza?
Più spiritualmente che nelle poche reminiscenze materiali ancora presenti. Forse il ricordo più bello è legato alla sua statua, nella piazza prospiciente al Conservatorio. Accadde che nel 1875 fu chiesto a 36 compositori di regalare ciascuno un brano per finanziare il monumento con i proventi della pubblicazione. Nel 2001, in occasione del bicentenario della nascita di Bellini, recuperai nella biblioteca del Conservatorio l’album con tutti quei pezzi e li incisi in un cofanetto di tre cd.
Cosa ricorda con più orgoglio della sua direzione a Catania?
Per esempio la messinscena di opere dimenticate come la “Fedra” di Paisiello, che non si eseguiva dai tempi del compositore, o la “Sakùntala” di Alfano che inaugurò la stagione 2016, e poi l’obbligo di rappresentare almeno un’opera di Bellini a stagione. Ma sono fiero anche di avere inaugurato un ciclo sul Novecento italiano strumentale, perché il repertorio sinfonico nazionale è stato spesso ingiustamente accantonato: da Respighi a Pizzetti, da Castelnuovo-Tedesco a Petrassi, solo per menzionare alcuni.
Come scoprì Thalberg?
Fu nel ’79 al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Bisognava eseguire in concerto una parafrasi d’opera e ne scelsi una di Thalberg: “Souvenir da Un ballo in maschera” di Verdi. Mi piacque la sua scrittura e cominciai a coltivarlo, poi scoprii che a Napoli viveva la discendente Francesca Ferrara Pignatelli principessa di Strongoli. Ci dedicammo assieme alla rivalutazione dell’artista e cominciai a inciderne le opere.
E il suo famoso pianoforte?
Non era più suonabile. È stato donato alla collezione di strumenti antichi del Museo di Storia dell’Arte di Vienna, dove è anche quello di Liszt.
Qual è la ricezione attuale di Thalberg?
Il mio canale Spotify conta 20 mila ascolti medi mensili, che è un grosso numero per la classica, e la maggioranza delle composizioni proposte sono sue.
Quali preferisce?
Le fantasie sul “Barbiere di Siviglia” e sul “Mosè in Egitto” di Rossini, che fu il pezzo eseguito in una famosa sfida con Liszt. E quella su “La sonnambula” di Bellini.
Quando è fissato il prossimo Premio Thalberg?
Si terrà a maggio di quest’anno la quattordicesima edizione. È singolare che spesso abbiano vinto giovani pianisti russi, perché l’eredità della scuola napoletana lì è rimasta viva da quando Beniamino Cesi, allievo di Thalberg, fu chiamato da Anton Rubinstein a insegnare al Conservatorio di San Pietroburgo.
E i giovani italiani?
Condivido l’opinione di Riccardo Muti: tutto comincia dall’educazione scolastica. Non è possibile che si insegni chi è stato Caravaggio e non chi fu Alessandro Scarlatti. La musica va studiata meglio e i bambini devono essere educati dalle scuole elementari, più all’ascolto che all’esecuzione con il famigerato flauto dolce. È un insegnamento che concorre alla crescita dell’uomo, perciò non può interessare solo a chi pensa di intraprendere la carriera musicale.
Lei è presidente della Commissione consultiva per la Musica del Ministero della Cultura, è concertista e didatta. Un auspicio a inizio d’anno è d’obbligo.
Che s’investa sempre più nella musica. In Italia ci sono poche orchestre e bisogna ampliare le opportunità di lavoro per chi esce dai Conservatori.