Il maestro del western e premio Pulitzer unisce al suo classico copione una missione civilizzatrice. È il racconto di un mito che finisce, insieme alle sue leggi e ai suoi riferimenti
Fare l’America è stata impresa tutt’altro che facile. Nell’epoca in cui viviamo, votata alla banalizzazione in ogni ambito, sia esso politico o culturale, la storia degli Stati Uniti è quella riassunta dalla bandiera a stelle e strisce, dai cori gospel e dal motto “In God We Trust”. La terra della frontiera e della città sulla collina, dei pionieri e dei commercianti di pellicce, dei cercatori d’oro e delle ferrovie che si costruivano per unire una costa all’altra. Un idillio, insomma: un quadro bucolico sicuramente sfregiato da una Guerra civile e dalla caccia ai nativi, ma che nonostante gli accadimenti infausti è sopravvissuto fino a noi. La forza e la potenza, gli spazi immensi e illimitati, il volere sempre di più, sovente ottenendolo. Un quadro, appunto. Una trama da film. L’America, in realtà, è il risultato di un big bang fatto di migrazioni e commistioni etniche, religiose, sociali. Un melting pot unico e non replicabile.
Un compendio di tale epica è “Arfive“ (Mattioli 1885, 296 pp., 19 euro), di A.B. Guthrie, maestro del western e vincitore del Pulitzer per la narrativa nel 1950. E’ lui, tra le altre cose, l’autore de Il grande cielo, da cui fu tratto il film del 1952 interpretato da Kirk Douglas. Siamo in Montana, il copione non si discosta dai precedenti di Guthrie: praterie, ovest da colonizzare, tanto bestiame. Qui, però, c’è qualcosa di più: c’è una missione civilizzatrice. Una piccola comunità in mezzo al niente, isolata da tutto. Un ristorante e un emporio, una chiesa e un bordello. Fine. Vita che si trascina, stanca, senza particolari scossoni.
Fin quando arriva Benton Collingsworth, insegnante giunto fin lì dall’Indiana. All’inizio sembra sospettoso, lui uomo del Midwest catapultato in quelle nuove terre dimenticate da Dio, frontiera della frontiera più estrema del nuovo mondo: “Per un lungo momento si guardò attorno, avvertendo sempre di più la sensazione che la Provvidenza, il caso o la sua stessa inavvedutezza li avessero fatti arrivare nel posto sbagliato”. Sì, Collingsworth si era preparato per quel viaggio: aveva letto tutto quel che c’era da leggere sul Montana, s’era documentato come fanno quelli bravi e colti.
Poi, dal finestrino del treno, capisce che nulla di quel che aveva studiato gli sarebbe servito: “Non c’era nulla, il deserto assoluto”. Eppure, qualcosa poi cambia. Quel nulla diventa un’occasione e il suo arrivo – inizialmente visto con circospezione, se non con ostilità – propizierà aperture e cambiamenti. Fondamentale sarà il legame stretto con l’allevatore Mort Ewing, che aiuterà il bravo insegnante a inserirsi in una comunità rimasta ancorata a princìpi arcaici e strutture (gerarchiche e mentali) consolidate e considerate immutabili.
Il puritano Benton vincerà la sua battaglia in quel posto di senza Dio dove il postribolo era l’attrazione maggiore. Il progresso si fa strada pian piano, anticipando quella corsa impetuosa e senza freni che si vedrà bene a partire dalla metà del Novecento. Non è solo una storia per conforto serale, quella di Guthrie: è il racconto della fine, lenta ma inesorabile, del mito del Far West, delle sue leggi e dei suoi riferimenti. E’ il racconto del momento in cui l’America ha iniziato a mettere il nuovo vino nelle nuove otri.