Emblema della noia o dell’audacia sperimentale, “La corazzata Potëmkin”, presentata il 21 dicembre 1925, è un’opera che ha segnato tutto il Novecento. La vita del regista è stata la storia di un’epoca, un tragico compendio dei rovesci e delle fortune che potevano toccare a chi si è spinto “troppo in là”
La scalinata di Odessa, la carrozzella, l’occhio della madre, i fucili, la statua del leone che si anima. Sollucchero per generazioni di cinéphile pipa e baschetto, ispirò la recensione più nota e irriguardosa a un Fantozzi solo momentaneamente triumphans. Emblema della noia ontologica o della più suprema audacia sperimentale – chi l’ha visto intero, chi a pezzi, chi ha visto solo Fantozzi – “La corazzata Potëmkin” ha arredato l’immaginario di tutto il Novecento. E sta per compiere cento anni. Come vola il tempo quando ci si diverte, a monumentalizzare o desacralizzare poco importa, giacché tutti, capolavoristi o disfattisti, sanno ciò di cui si parla, anche solo sentendo citare il titolo. Ma Sergej M. Ejzenštejn, chi era?
Un maestro della retorica per Orson Welles. Tutto stile e niente contenuto per Stanley Kubrick. Ma è più complicata di così: nato nel 1898, la vita di Ejzenštejn è la storia di un’epoca, un tragico compendio dei rovesci e delle fortune che potevano toccare a chi, formatosi a teatro e nell’Armata Rossa in qualità di disegnatore di manifesti e costumista per i “carnevali rossi” (dipingeva camion con parole d’ordine e scriveva spettacoli per le truppe bolsceviche), si volesse poi spingere “troppo in là” abbandonando i dettami cari al socialismo pur di inseguire i cavalli furiosi della propria febbrile inventiva.
I guai cominciarono presto e Ejzenštejn li racconta nella sua bellissima autobiografia “Memorie”. La scrisse mentre era ricoverato in ospedale nel febbraio del 1946 in seguito a un attacco cardiaco che lo colse proprio la sera in cui avrebbe dovuto ritirare il Premio Stalin. Il dittatore lo aveva osteggiato per tutta la vita, costringendolo a penose autocritiche. Dopo il premio lo ridurrà definitivamente al silenzio e condannerà con severità inappellabile la seconda parte del suo ultimo film, “Ivan il Terribile”, che verrà censurata.
“Io sono passato per un’epoca che non ha precedenti”, racconta Ejzenštejn. “Ma non voglio parlare dell’epoca. Voglio annotare come un uomo medio passi attraverso una grande epoca, quale contrappunto del tutto imprevisto. Come si può sprofondare nella lettura mentre si dirige la costruzione di trincee durante la guerra civile, o tra le pagine di Schopenhauer giacendo all’ombra di un convoglio militare. Come ci si comporta durante gli interrogatori della polizia. Come si rimane a fissare un istante nel flusso futuro dei ricordi”. Poche righe, ma è già montaggio. E una domanda: “Ma c’è proprio stata, la vita?”
Eccome. Un finestrino di treno da cui sfrecciano via “brandelli d’infanzia, scampoli di gioventù, momenti di maturità”. Ed eccola, pagina dopo pagina: le prime impressioni cinematografiche nel 1908, a soli dieci anni, a Parigi (“il vetturino del geniale Méliès, che guida lo scheletro di un cavallo legato a una carrozza”); il racconto della Riga natia (Ejzenštejn era di famiglia borghese, figlio di un ebreo tedesco convertito che faceva l’ingegnere a San Pietroburgo); le passeggiate nel monastero di Sant’Alessandro e la passione per il “carattere decorativo della liturgia, i raggi che trafiggono il fumo dell’incenso, le chiome opulente dei preti come quella del pope ne “La corazzata Potëmkin”.
Determinante la scoperta della Francia nella biblioteca paterna, con gli album dedicati a Napoleone e i testi sulla Comune di Parigi. “E’ da allora”, scrive il regista, “che le rivoluzioni mi appassionarono per il loro romanticismo”. Gli svogliatissimi studi di ingegneria furono interrotti per lo scoppio di quella del 1917. Qualche anno dopo venne il primo film, “Sciopero”, che lo rese celebre e aprì la strada a “La corazzata Potëmkin” e al successo mondiale. Le fortune cominciano a declinare con “Ottobre”, reo di mancato trionfalismo.
Nel 1930, un viaggio negli Usa sotto gli auspici della Paramount: briosa accoglienza ma netto il rifiuto del regista di adattare “Una tragedia americana” di Theodore Dreiser. Optò per un film messicano che mai finirà, montato arbitrariamente anni dopo e senza il suo imprimatur. Quindi il ritorno in patria: politica culturale cambiata e bocciatura snervante di ogni progetto. “Il prato di Bežin” interrotto per “leso realismo” e una disperata lettera a Stalin per chiedere di portare a termine “Ivan il Terribile” – lettera inutile: Sergej M. Ejzenštejn morirà un anno dopo, nel 1948.
Un’esistenza al galoppo, trafelata “come una corsa per prendere un treno, dopo essere sceso dall’altro”. E una sola, solenne convinzione: “Impossibile insegnare, si può solo imparare”.