Gli ex detenuti che hanno raccontato la storia della loro prigionia nel carcere di Evin, soprattutto della fase iniziale, cercano di spiegare che cosa vogliono dire quel silenzio e quelle interruzioni del silenzio
Il vuoto dentro a una cella di isolamento, a Evin, il carcere di Teheran, è riempito dall’arrivo dei pasti e dei carcerieri per gli interrogatori. Gli ex detenuti che hanno raccontato la storia della loro prigionia, soprattutto della fase iniziale, cercano di spiegare che cosa vogliono dire quel silenzio e quelle interruzioni del silenzio: il termine spaventoso che li definisce è “tortura bianca”, e “bianca” non riesce per nulla ad attutirne l’orrore né i segni che può lasciare. Il meccanismo di sopravvivenza ha a che fare con l’ordine: si prova a creare una routine quotidiana, per scandire un tempo che non ha più connotati, perché – come accade a Cecilia Sala, detenuta illegalmente dal 19 dicembre scorso a Evin – la luce artificiale sempre accesa lo deforma. I pasti forniscono alcune indicazioni scarne, che però vengono stravolte dagli interrogatori, che possono essere quotidiani o no, durare un’ora o molto di più, e sono fatti apposta per confondere e spaventare il prigioniero. “Caos informativo” è un’altra espressione che si usa parlando della tortura bianca: sembra una contraddizione rispetto al silenzio dell’isolamento, invece è proprio questo caos che riempie il vuoto, ed è fatto di accuse, di bugie, di intimidazioni, di parole usate soltanto con l’intento di terrorizzare. Fa paura il silenzio, fa paura il rumore.
L’alternanza tra silenzio e rumore, dentro a una cella, non è definibile da chi vive l’isolamento perché ogni cosa è decisa da qualcun altro, dai carcerieri: quando fare una doccia, quando telefonare a casa, se si può, quando ricevere una visita, se si può, quando essere portati nell’unica altra stanza accessibile, quella degli interrogatori. La volontà di chi è imprigionato è annullata, al suo posto ci sono le informazioni, spesso deliberatamente false, fornite dagli unici interlocutori possibili: si comincia con il silenzio, là fuori nessuno parla di te, nessuno si prende cura di te, nessuno si occupa di te. E’ un periodo che può durare il tempo che decidono i carcerieri, perché naturalmente ha a che fare con i contatti con l’esterno che possono mettere fine al silenzio e limitare il caos informativo. E’ per questa ragione che anche la scansione delle telefonate o delle visite fa parte della tortura, ed è naturalmente una tecnica che esiste nei paesi repressivi, non in quelli democratici, dove – tanto per dirne una – l’accesso a un avvocato è garantito fin da subito.
Poi c’è il rumore, che parte dalle intimidazioni: le accuse, il fatto che esistano delle prove a carico del detenuto che ne giustificano la detenzione, l’insistenza nel far firmare una confessione, le continue domande, magari sempre le stesse, e l’irritazione per le risposte sempre uguali. Ci sono anche le bugie su quel che avviene fuori di lì, il rumore esterno, degli altri, che viene trasformato in un’altra minaccia: là fuori si parla troppo, e questo è un problema per te che sei dentro. Nei racconti degli ex detenuti queste sono le minacce che più confondono – è meglio che si parli di me o che si taccia? – e che deformano l’alternanza tra il vuoto e il caos. In “White torture” del premio Nobel Narges Mohammadi, un libro di testimonianze di donne iraniane prigioniere, la paura del silenzio e la paura del rumore sono raccontate in modo vivido, così come le interruzioni, che spesso prendono la forma di una formica o di un insetto su cui concentrarsi, di cui prendersi cura, unici essere viventi che non portano tortura.
Fuori dalla cella di isolamento, l’alternanza tra silenzio e rumore è invece una scelta ed è questa la grande differenza con chi è in cella, che non sceglie nulla. Non si può sottovalutare questa differenza, che cosa significa il silenzio per noi e per chi è in cella, che cosa significa il rumore per noi e per chi è in cella. Con la scelta, viene sempre una responsabilità.