Molti esperti di linguistica temono che i programmi di intelligenza artificiale generativa imperniati sull’utilizzo del linguaggio non finiscano solo per sostituire l’essere umano come autore del messaggio, ma, soprattutto, per impoverire le forme di comunicazione. Eppure esprimersi senza pensare è da sempre una tentazione irresistibile per l’uomo
Apple e Google hanno lanciato nuovi programmi di intelligenza artificiale generativa imperniati sull’utilizzo del linguaggio: tanto Apple Intelligence quanto Gemini 2.0 vantano l’opportunità di scrivere al posto dell’utente. Ci si potrà affidare a loro per rispondere in un certo modo a tutte le mail di una categoria di seccatori, mollare il partner con termini gentili, semplificare un discorso complicato o rendere più fumosa, affinché sembri intelligente, una considerazione banale. Gli esperti di linguistica sono insorti; temono che quest’opera di assistenza finisca non solo per sostituire l’essere umano come autore del messaggio, ma, soprattutto, per impoverire le forme di comunicazione. Il Guardian ha raccolto le opinioni di Tony Thorne (King’s College London), secondo il quale l’AI spingerà gli uomini all’utilizzo di un linguaggio sempre più misero e spersonalizzato, privo di idioletti; e di Rob Drummond (Università di Manchester), che denuncia il nuovo marchingegno come “la superficialità definitiva”, in quanto indurrà l’uomo a delegare alla macchina il registro e il tono della lingua.
Sono obiezioni sensate, incardinate sulla strettissima interconnessione fra linguaggio e pensiero, che da sempre appassiona i filosofi. Hobbes, ad esempio, sosteneva che la specie umana godesse di una razionalità superiore a quella degli altri animali solo in quanto, essendo dotata di un linguaggio più sofisticato, poteva comporre pensieri più articolati – proprio come un calcolatore dotato di un linguaggio più avanzato sa effettuare operazioni più complesse. Per Wittgenstein non c’era differenza fra linguaggio e pensiero, e, poiché il linguaggio è un insieme di proposizioni che raffigurano i fatti di cui è composto il mondo, concludeva che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Gli esperti interrogati dal Guardian hanno dunque ragione ad ammonirci sull’eventualità di diventare tutti più tonti, a furia di delegare all’AI i meccanismi cerebrali che presiedono alla formulazione di un concetto in parole povere, o in tono sarcastico, o in guisa accademica, o in endecasillabi sciolti. Limitando il nostro linguaggio, limiteremmo il nostro mondo.
Eppure c’è un ma. Esprimersi senza pensare è da sempre una tentazione irresistibile per l’uomo. Lo è stato addirittura per l’élite intellettuale, come dimostrano gli esperimenti di scrittura automatica dei surrealisti, in cui il discorso proveniva da improvvisazione istintiva o, nel caso del “cadavere squisito”, dal collage di brandelli composti alla cieca. Lo è anche, e in modo costante, nella nostra vita quotidiana. I moduli burocratici, i verbali delle forze dell’ordine, le telecronache delle partite, i disclaimer legali sono tutti esempi – e sono solo alcuni – di espressione che prescinde dal pensiero nell’affidarsi a determinati sintagmi standard, facendosene un vanto: ad esempio, la formulazione di un contratto deve seguire automatismi stilistici che non dipendono certo dall’inventiva dell’estensore, altrimenti i contraenti non si sentirebbero garantiti a sufficienza dai contenuti dell’accordo. La tentazione è così forte da contaminare anche la narrativa. Come scrive Paolo Nori in “Chiudo la porta e urlo“, molti romanzi sono scritti in un italiano artificiale che fa lo stesso effetto degli arredi (“damaschi fiori ebani tappeti e bronzi”) che un tempo i borghesi si mettevano in casa per fingere di essere ricchi e nobili.
E’ ovvio che i primi esperimenti linguistici con l’AI di ultima generazione sono piuttosto stenterelli e goffi, o disumani in modo ridicolo. Siamo però sicuri che noi prenderemo a parlare così aridamente a causa dell’esempio fornito dalle macchine? Non è piuttosto il contrario? Non è la scrittura automatica dell’AI a uniformarsi al modo sempre più standardizzato in cui comunichiamo, e di cui lasciamo traccia in un gigantesco database di documenti? In fondo il mondo a cui l’AI attinge è quello, sempre più limitato, del nostro linguaggio.