Riconsiderare il pessimismo. L’incomprensibile piagnisteo sul “futuro dei giovani”

Prevale il cliché fastidioso di una generazione che non sa stare sulle proprie gambe e fatica a vedere il mondo come qualcosa da abbracciare e magari salutare. È essenziale riscoprire l’ottimismo realistico, cioè saper leggere i fatti e non farsi travolgere dall’esagerazione apocalittica

Alberto Ronchey citava spesso un proverbio cecoslovacco pieno di saggezza: “Un pessimista è un ottimista che si è informato”. Inutile spiegare l’aforisma. Parla da solo. Ma da quando l’informazione è stata sostituita ampiamente dal flusso incostante, troppo generoso e volatile, delle idee correnti, delle predizioni alla portata di tutte le borse, delle iperboli e dei falsi, bisogna rivedere il senso del proverbio. Un pessimista è un ottimista che è stato disinformato. L’ottimismo può sembrare un semplicismo, eppure spesso una buona capacità di leggere la vera informazione nel flusso opinionistico travolgente dell’esagerazione apocalittica è la via maestra per approdare a quella calma e serena visione delle cose che manca tanto alle nevrosi contemporanee, ora massimamente e balordamente minacciate da uno strano giullare di successo che vota per i nazisti tedeschi e aspira alla conquista di Marte.

Ci si lamenta, a colpi di indagini sociologiche, statistiche, e di inchieste giornalistiche, del tono depressivo diffuso tra gli adolescenti e poi tra i giovani e quasi adulti e gli adulti di prima caratura. Si dice che prima vengono gli hikikomori, i ragazzi e le ragazze che cercano l’isolamento e respingono forme di socializzazione che hanno costruito l’immaginazione e la prospettiva di vita dei padri e delle madri, sono gli sdraiati di un saggio di Michele Serra. E successori. Poi il fenomeno evolve verso scelte di esperienza, di lavoro, di amicizia, di amore e di vita che esprimono diffidenza e sfiducia nel futuro. Cala la propensione alla proprietà della casa, nei paesi anglosassoni dove l’istruzione costa emerge come problema e gravame decisivo la questione del debito maturato per la frequentazione del college, si cercano soluzioni protettive che ribadiscono dipendenza e subalternità rispetto alle circostanze, al nido originario, a scapito dell’inserimento comunitario e dei legami solidali di generazione. Non si esce dalla condizione immatura dell’esistenza, di qui una certa abulia, un mal sottile della volontà esausta, e non si cercano soluzioni familiari, non si fanno figli, non si irrobustiscono i legami di lavoro, si vive in un eterno e ripetitivo presente personale e collettivo. Questo più o meno dicono i censori della famosa generazione Zeta o comunque si vogliano definire, in un gioco impazzito di sempre nuove nomenclature, i nati alla fine del millennio, i post Millennial.

Per tigna e per dispetto, e per consolidata malizia nell’interpretare gli interpreti, così numerosi e petulanti, della vita sociale, si può dubitare senza troppi timori della verità di queste diagnosi di società, si può giocare con chi si fa gioco del vasto mondo a colpi di generalizzazioni imprecise. Cecilia Sala, per esempio, è un campione, di cui oggi si parla con febbrile attenzione e apprensione, della generazione Zeta, ma il suo profilo è l’opposto di quelle generalizzazioni e di quegli stereotipi. Qualcosa di vero o di verosimile però c’è, lo dicono appunto quegli pseudoconcetti della sociologia che campeggiano nell’informazione classica, colta, magari anche responsabile. E allora ci si può domandare: perché prevale il cliché fastidioso di una generazione che non sa stare sulle proprie gambe e fatica a vedere il mondo come qualcosa da abbracciare e magari salutare (come ha fatto Sofri, qui, ieri)?

Gli ottimisti possono sembrare dei testardi che non si informano. I pessimisti potrebbero anche essere vittime dell’enfasi con cui nel flusso sono trattate le forme del reale e le prefigurazioni. A quelli della generazione Zeta, prima di alzare il dito e fare la lezione consueta, andrebbe raccontato che non è vero il declino ineluttabile, che la forza coesiva e universalizzante delle tecnologie e delle connessioni non è necessariamente coincidente con il loro abuso e i fattori di tossicità che talvolta ne emanano, che i redditi medi sono spesso di molto superiori a quelli dei genitori Millennial e Boomer, che la salute è meglio tutelata e le aspettative di vita notevolissime, che la casa è piena di linee di faglia e crepe ma non brucia, non si è obbligati a vivere nel rischio imminente delle inondazioni, dell’innalzamento dei mari, delle migrazioni bibliche, della crescita delle diseguaglianze, degli incendi inarrestabili, delle guerre dispiegate e dei crimini loro connessi, della penuria energetica. Il futuro può essere considerato senza immergerlo in quella foschia depressiva che è il sale di tanti racconti, anche quelli che immaginano di offrire speranza nei modi più buffi: si moltiplicano le piccole icone e grottesche della riscoperta di sé, e si erigono a pietre di paragone coloro che “lavoravo quattordici ore al giorno per un salario di fame, ora abito in un’isola dove si pescano aragoste, non c’è criminalità e posso godermi ogni giorno il mio paradiso”. Spesso il pessimismo è solo un penoso inganno.

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  • Giuliano Ferrara
    Fondatore
  • “Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.

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