15 giorni a Evin. Una ex detenuta ci racconta la prigione iraniana

L’isolamento, gli interrogatori, le bugie. Non c’è nulla di “reciproco” con l’Italia nel carcere duro in Iran

Milano. “Sono finita davanti a una corte iraniana nove mesi dopo il mio arresto e la mia detenzione a Evin, e il mio governo non era stato avvertito”, dice al Foglio Kylie Moore-Gilbert, accademica australiana che è stata arrestata dall’intelligence delle Guardie della rivoluzione iraniane nel settembre del 2018, all’aeroporto di Teheran, ed è stata rilasciata nel novembre del 2020. Moore-Gilbert, che allora lavorava all’Università di Melbourne nel dipartimento di studi mediorientali, era stata invitata a una conferenza nella capitale iraniana, era rimasta una quindicina di giorni per seguire i lavori e partecipare agli incontri di quel forum, e quando stava per ripartire, già in aeroporto, è stata arrestata, portata nel compound 2A del carcere di Evin – gestito dall’intelligence delle Guardie della rivoluzione, fuori dal controllo di qualsiasi altro apparato del governo: è dove si pensa che sia rinchiusa Cecilia Sala – in una cella di isolamento, senza contatti con l’ambasciatore australiano per quattro mesi. “Credo che la pressione del mio governo e dell’ambasciata australiana in Iran abbiano imposto ai miei carcerieri, dopo quattro mesi, di decidere qualcosa, perché non erano riusciti a obbligarmi a confessare nulla”, dice Moore-Gilbert. Il sistema di carcerazione a Evin è “deliberatamente disegnato per tagliarti fuori da tutto, così tu non sai nemmeno se qualcuno si sta occupando di te”: è bene che si sappia, dice, che il vuoto d’informazione in cui si vive in condizioni durissime di isolamento viene riempito da bugie e interrogatori, “ho saputo che c’era una campagna per la mia liberazione dopo un anno”.



Cecilia Sala è stata arrestata il 19 dicembre attorno l’ora di pranzo, è da 15 giorni rinchiusa in una cella di isolamento molto piccola – Kylie dice che ci sono celle due metri per due e tre metri per tre: questo è l’ordine di grandezza dell’abuso – senza brandina, con la luce artificiale sempre accesa per confondere il giorno con la notte e deformare ulteriormente il senso del tempo, nessun oggetto suo né consegnato dall’esterno, “anche per gli occhiali da vista ci vuole un permesso speciale”, conferma Moore-Gilbert. Cecilia ha avuto tre conversazioni con i parenti, il 20 dicembre, il 26 dicembre e l’1 gennaio, e una visita di circa 30 minuti da parte dell’ambasciatrice italiana a Teheran, Paola Amadei il 27 dicembre: le condizioni della sua detenzione non sono però migliorate e il pacco che Amadei aveva preparato non è stato consegnato, nonostante le autorità iraniane abbiano sostenuto il contrario. “Le sono state fornite tutte le agevolazioni necessarie – ha scritto ieri su X l’ambasciatore iraniano in Italia, Mohammadreza Sabouri, dopo che era stato convocato alla Farnesina: l’utilizzo del termine “necessario” è offensivo – Tra cui ripetuti contatti telefonici con i propri cari”. Moore Gilbert dice che i contatti con l’esterno nella fase di incarcerazione in cui si trova Cecilia sono “inusuali”, ma certamente non sono sufficienti né tanto meno accettabili come rassicurazioni da parte delle autorità iraniane.

L’ambasciata di Teheran in Italia ha scritto sempre ieri che si aspetta che, “reciprocamente”, siano fornite “le agevolazioni necessarie” a Mohammad Abedini Najafabadi, arrestato dalle autorità italiane su mandato americano il 16 dicembre scorso ora detenuto nel carcere di Opera: è accusato di aver passato tecnologia militare alle Guardie della rivoluzione. L’equivalenza che l’Iran tenta di fare tra Abedini e Sala è irricevibile: i dettagli che Moore-Gilbert racconta riguardo all’incarcerazione a Evin ne sono un’ulteriore conferma. L’isolamento è durissimo, poi ci sono gli interrogatori, che solitamente avvengono in una palazzina vicina a quelle delle celle di isolamento: “Arrivano i carcerieri, parlano in farsi, ti bendano gli occhi e ti portano nella stanza degli interrogatori: ogni volta che arrivano, non sai dove ti porteranno né cosa ti faranno, è spaventoso perché tu lì dentro hai solo pensieri neri. Durante gli interrogatori ti accusano di ogni tipo di reato, ti dicono che hanno le prove pure se non ce le hanno, ti minacciano dicendoti che ti conviene firmare una confessione perché nessuno verrà a salvarti. Fai quello che ti diciamo e starai meglio, dicono. I carcerieri vogliono uccidere ogni forma di speranza e ti ripetono che nessuno si sta occupando della tua liberazione”.

Il tempo pesa addosso, per alcuni giorni può non venire nessuno – spesso nel fine settimana, ma quando sei dentro non lo sai – l’ingresso dei carcerieri non sai cosa porterà né quanto durerà l’interrogatorio, “a volte resti bendato e hai di fronte un muro, altre si fanno vedere, ti fanno delle domande e tu devi rispondere per iscritto, a mano”. “E’ una forma insistente di tortura”, dice Moore-Gilbert, fatta di bugie, di pressioni continue, di privazioni. Poi un giorno, ti portano in un’altra stanza in cui c’è un giudice interno al carcere che prende tutti i documenti degli interrogatori, li firma, permette al detenuto di dire qualcosa in propria difesa – “ma non gli importa quel che dici” – e poi invia il dossier al tribunale. Le condizioni dell’incarcerazione possono cambiare oppure no, puoi uscire dall’isolamento oppure no, puoi uscire dalla sezione 2A oppure no, “difficilmente mandano le cittadine straniere nel braccio femminile cosiddetto ‘pubblico’ di Evin, perché possono prendere contatto con le tante iraniane che ci sono lì dentro, fare resistenza assieme a loro, che sono toste e organizzate, fare uscire informazioni perché le comunicazioni sono un pochino più facili: temono di perdere il controllo su di te e sanno che puoi incontrare donne che ti daranno aiuto e solidarietà. Il braccio femminile di Evin è famoso in Iran, è molto attivo contro il regime, fa uscire dettagli, a volte dichiarazioni pubbliche. Speravo di finire lì, lo speravo disperatamente, ma non mi ci hanno mai mandata”.



Kylie Moore-Gilbert è infine uscita dall’isolamento, è andata in una cella con altre detenute, erano quattro in tutto, ha iniziato a studiare il farsi – “appena ho potuto chiedere qualcosa, mi sono fatta dare un dizionario, cercavo le parole che continuavo a sentir dire dai carcerieri, o qualcosa che suonasse uguale, se c’era una detenuta che parlava inglese mi facevo tradurre tutto il possibile” – e quando si è vista su uno schermo della televisione, un giorno, ha capito che non era stata abbandonata. Ha iniziato ad avere dei contatti diretti con i carcerieri, “che sono quelli che possono renderti la quotidianità un po’ migliore, oppure no”, e poi è arrivato il giorno della liberazione, in cambio di tre cittadini iraniani condannati in Thailandia perché legati a un attacco terroristico a Bangkok, nel 2012. “Mi hanno presa, bendata, ammanettata e portata via: avevo capito che qualcosa stava per succedere, ma quando ho visto le manette ho pensato che fosse finita. L’ultima tortura, poi ero libera”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d’amore – corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d’amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l’Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell’Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi

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