È arrivata la lista degli avvocati compilata dal ministero degli Esteri iraniano da cui bisognerà scegliere il nome del legale rappresentante della giornalista. Verso cui però non sono state ancora formulate accuse precise. E il suo arresto assume sempre più i tratti di una decisione politica dell’ala più oltranzista della leadership iraniana
La diplomazia italiana si è mossa finora con estrema cautela sulla vicenda di Cecilia Sala, per cercare di non irrigidire i canali di dialogo aperti con le autorità iraniane. Ma adesso qualcosa inizia a cambiare anche su quel che riguarda il lato più prettamente diplomatico e gestito direttamente dal ministero degli Esteri, in coordinamento con Palazzo Chigi. Il continuo rimandare la seconda visita dell’ambasciatrice italiana a Teheran, Paola Amadei, l’aver trattenuto per giorni il pacco con generi di prima necessità destinato a Sala, le risposte non convincenti sulle condizioni di detenzione nel carcere di Evin e in generale l’atteggiamento fumoso delle autorità iraniane hanno portato a un ripensamento della logica di forza nel governo italiano, che secondo chi è a conoscenza delle trattative sarebbe intenzionato a uscire dalla fase di analisi per iniziare a mandare segnali più significativi. E’ per questo che ieri la Farnesina ha inviato al governo di Teheran una nota verbale (che nel cerimoniale diplomatico è una comunicazione meno formale di quella scritta), attraverso l’ambasciatrice Amadei, per chiedere “la liberazione immediata” della giornalista e “garanzie totali sulle condizioni di detenzione”. Intanto Palazzo Chigi, i servizi d’intelligence e ministero della Giustizia lavorano alla strategia più ampia, dove ogni tassello apparentemente burocratico è in realtà un messaggio politico.
Qualche giorno fa all’ambasciata italiana di Teheran è arrivata la lista degli avvocati compilata dal ministero degli Esteri iraniano dalla quale bisognerà scegliere il nome del legale rappresentante della giornalista. Secondo diverse fonti ascoltate dal Foglio, si tratta di una prassi consolidata in questo genere di casi: è un elenco molto simile a quello che arrivò alla moglie di Jason Rezaian, ex capo del bureau di Teheran del Washington Post, arrestato nel 2015. La moglie di Rezaian all’epoca aveva cercato di assumere diversi avvocati che avevano rappresentato prigionieri politici, ma “molti di loro sono stati rifiutati e il famigerato giudice Abolqasem Salavati (capo della sezione 15 del Tribunale rivoluzionario di Teheran, sotto sanzioni da parte dell’Ue e degli Stati Uniti, ndr) aveva persino detto che alcuni di questi avvocati non erano ammessi nella sua aula. Quindi la percezione di un processo equo è stata schiacciata fin dall’inizio”, ha raccontato al Foglio Rezaian. L’avvocato iraniano, in questi casi, ha un compito di rappresentanza certo fondamentale, ma il suo ruolo non va molto oltre quello di comparire in tribunale, esaminare il caso, presentare appelli e cercare di far rispettare il più possibile i diritti della persona detenuta, in coordinamento con lo staff legale dell’ambasciata. E’ una facciata per creare l’impressione di un processo equo e indipendente, difficilmente compatibile con la realtà dei fatti.
Eppure la scelta deve essere valutata con cura. A metà dicembre il Tribunale rivoluzionario di Teheran ha condannato Reza Valizadeh, ex giornalista dell’ufficio iraniano di Radio Free Europe (che nella sua versione in persiano si chiama Radio Farda), a 10 anni di carcere con l’accusa di aver “collaborato con governi ostili”. In un’intervista alla sua radio, alcuni familiari di Valizadeh hanno raccontato che il processo “è stato condotto in modo ingiusto” e che il giudice Iman Afshari (capo della sezione 26 del Tribunale rivoluzionario di Teheran, sotto sanzioni da parte di Regno Unito e Canada), durante un acceso scambio con Mohammad Hossein Aghasi, l’avvocato di Valizadeh e legale molto noto per aver difeso diversi prigionieri politici, ha definito la scelta del giornalista di scegliersi un avvocato “in cravatta” come il “suo più grande errore”. Non sappiamo se Aghasi è nella lista degli avvocati iraniani autorizzati a difendere Cecilia Sala.
C’è poi un altro dettaglio emerso due giorni fa che complica ulteriormente le trattative: il portavoce della magistratura iraniana Asghar Jahangir ha detto durante una conferenza stampa sui processi attualmente in corso di “non avere informazioni” sull’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala. Secondo alcuni media in lingua farsi, sarebbe la prova che il suo caso è per ora gestito “da un’altra agenzia”, probabilmente direttamente dall’intelligence del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (Irgc). Non c’è ancora un processo, accuse precise contro Cecilia Sala non sono ancora state formulate, e tutto sarebbe fumoso e poco chiaro a dimostrazione di una cosa: il suo arresto è una decisione politica dell’ala più oltranzista della leadership iraniana. In altre parole, è un ostaggio.