Il 15 per cento dei contribuenti paga il 63 per cento dell’Irpef: per tagliare le tasse bisogna tagliare la spesa

Nonostante l’incremento di risorse pubbliche stanziate, in 17 anni il numero di poveri assoluti è salito del 266 per cento. Ma la nostra politica insiste su fare debito per sussidi e aiuti alle famiglie, mentre in materia di pensioni ha fatto l’esatto opposto. E le soluzioni si scontrano con la ricerca del consenso a tutti i costi

Tagliare le tasse al ceto medio: è lo slogan più in voga tra i politici. E’ giusto? Certo che sì! Possibile? Certo che no! A meno di tagliare una fetta di quei 164 miliardi di euro a carico della fiscalità generale che la politica spende per sussidi, bonus, pensioni a chi non ha pagato né tasse né contributi, sostegni alla famiglia, assistenza sociale e in generale sostegno alle cosiddette “fasce deboli” o, più di moda, ai “fragili”. Peccato che queste fasce deboli o fragili sono diventate la maggioranza nel paese, aumentate per: a) il quasi fallimento della contrattazione nazionale da parte dei corpi intermedi e sindacali che non riescono a stare al passo neppure con l’inflazione; b) per la scarsa produttività causata da modesti investimenti che soprattutto nel settore servizi, commercio, turismo, pubblica amministrazione e in parte nelle pmi manifatturiere, sono surrogati da bassi salari; c) gli incentivi dello stato con la politica “meno dichiari redditi più bonus, sussidi, sconti fiscali e contributivi avrai; più dichiari e meno detrazioni, deduzioni, bonus e aiuti avrai e più tasse pagherai”.

L’aumento del numero di “poveri” è visibile dai dati Mef e Istat; nel 2008, quando il debito pubblico era intorno al 100 per cento del pil, lo stato spendeva in assistenza (voci sopra) 73 miliardi; nel 2024 i trasferimenti a carico della fiscalità generale dal bilancio pubblico all’Inps, sono ammontati a 164 miliardi; più che raddoppiati in 17 anni. Con tutti questi soldi in più, la povertà (sconfitta secondo i M5S il 27 settembre 2018, sul balcone del Chigi) si sarebbe dovuta quantomeno ridurre e invece: nel 2008 i poveri assoluti erano 2,1 milioni e oggi sono oltre 5,65 milioni con un + 266 per cento (un miracolo politico); i poveri relativi erano nel 2008 6,5 milioni e oggi superano gli 8,65 milioni (+ 33 per cento).

Con dati così sconfortanti qualsiasi azienda o impresa avrebbe licenziato in tronco tutta la dirigenza: è come se un’impresa avesse investito in pubblicità, marketing e sviluppo più del doppio del budget e avesse avuto i ricavi più che dimezzati e perdite anziché utili. E invece la nostra politica, senza neppure fare una verifica sulla bontà dei provvedimenti legislativi fin qui presi, insiste su questa strada fallimentare prevedendo in legge di Bilancio quasi 20 miliardi di cui 9 a debito (ma saranno molti di più perché il pil non crescerà secondo le pie aspettative del ministro dell’Economia di circa l’1 per cento ma molto meno, forse lo 0,5 per cento) in sussidi e aiuti alle famiglie compreso il bonus Natale, nuovi nati, la perigliosa decontribuzione, lo sconto fiscale e ulteriori detrazioni. Ma non per tutti: solo per i redditi medio bassi per i quali è reso strutturale il taglio del cuneo fiscale fino a 40 mila euro (resta contributivo per i redditi fino a 20 mila euro mentre per i redditi tra 20 e 40 mila euro il taglio diventa fiscale con una detrazione fissa di 1.000 euro fino a 32 mila euro che diminuisce progressivamente fino ad azzerarsi tra i 32 e i 40 mila euro). Lo stesso per tutti i bonus, mentre l’Assegno unico per i figli si riduce da 199,40 euro a 57 € euro al mese.

Anche l’accorpamento delle aliquote Irpef per i redditi sopra i 35 mila euro è pressoché neutralizzato dalla riduzione delle detrazioni, mentre la più volte evidenziata volontà del governo di ridurre l’Irpef per il ceto medio portando la seconda aliquota dal 35 al 33 per cento (per redditi tra 28 e 50 mila euro) e l’attuale secondo scaglione di reddito da 50 a 60 mila euro, resta un libro dei sogni anche per il flop del “concordato preventivo biennale (Cpb)”. Era difficile immaginare che si potesse avere una riduzione del carico fiscale finanziata da entrate temporanee prodotte dal concordato. Al massimo la riduzione avrebbe potuto valere per un anno, massimo due; ma per come è stato congegnato il Cpb è più che probabile una riduzione delle entrate. A titolo di esempio, ipotizziamo che all’impresa A venga proposto un reddito per il 2024 di 100 rispetto al reddito di 92 dichiarato nel 2023; se l’impresa pensa di avere per il 2024 un reddito di 105, aderirà al Cpb perché sulla differenza tra 92 e 100 pagherà solo il 10 per cento di Ires se con Isa da 8 a 10 (il 12 per cento con Isa 6-7 e il 15 per cento con Isa 5 o inferiore) mentre tra 100 e 105 non pagherà nulla e risparmierà pure sull’Irap. Inoltre, questi contribuenti sono esclusi dagli accertamenti per il biennio in oggetto. L’impresa B prevede invece un reddito costante e quindi non aderisce, perché se lo facesse e i redditi effettivi fossero inferiori rispetto a quelli concordati, dovrebbe pagare le imposte sulla base dei redditi concordati. E’ evidente che aderiranno solo le imprese che ci guadagnano e che è più che probabile una riduzione di gettito effettivo.

Intanto il governo (vale anche per quelli precedenti tranne il governo Draghi) che brama per ridurre le imposte al ceto medio, in materia di pensioni ha fatto l’esatto contrario; ha aumentato ben oltre l’inflazione le pensioni sociali, le minime e le pensioni con maggiorazione mentre per quelle oltre sei volte il minimo (3.300 euro lordi al mese), cioè il famoso ceto medio, le ha ridotte in termini reali azzerando quasi la perequazione all’inflazione, di oltre il 14 per cento.

Ma perché non è possibile ridurre il peso fiscale al ceto medio? Semplicemente perché il 60 per cento degli italiani paga solo l’8 per cento di tutta l’Irpef, che per i redditi del 2022 dichiarati nel 2023 ed elaborati nei mesi scorsi vale 189,5 miliardi; il 25 per cento paga il 28 per cento circa; mentre il 15,27 per cento paga il 63,4 per cento. Guarda caso quel 15,27 per cento si riferisce ai redditi da 35 mila euro l’anno lordi in su, il ceto medio che si sobbarcano gran parte dell’intera spesa pubblica. Solo per garantire la sanità a quel 60 per cento (il 25 per cento intermedio è autosufficiente all’80 per cento), occorrono ogni anno 60 miliardi; poi c’è tutto il resto (scuola, università, ricerca, strade, ecc.). Ridurre anche di soli 3 punti il carico fiscale al ceto medio costerebbe ogni anno oltre 4 miliardi di minori entrate.

L’unica soluzione è il taglio della spesa assistenziale che è il motore dell’evasione (meno redditi dichiarati e più vantaggi ottenuti) e del lavoro sommerso (più lavoro in chiaro, più alto l’Isee e meno vantaggi si ottengono). Ma questi tagli vanno contro la ricerca politica del consenso a tutti i costi e per questo resteranno solo uno slogan.

Alberto Brambilla. Presidente Itinerari Previdenziali

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent’anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l’economia e gli intrecci – non sempre scontati – con la società, al limite della “freak economy”. Prima di diventare praticante al Foglio nell’autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d’inchiesta L’Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell’anno nella categoria “giovani talenti” con un’inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.

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