Tutto cominciò con l’opzione senza canditi. Da lì è stato tutto un susseguirsi di personalizzazioni, da Armani a Zerocalcare. E il pandoro?
E ’esistito un tempo in cui il mondo si divideva in due: c’erano quelli che preferivano il panettone e quelli che preferivano il pandoro. Era un mondo semplice, un mondo in cui i bambini dopo il pranzo del 25 usavano la scatola Bauli o Motta per farsi un elmo da cavaliere medievale o da robot interstellare. Poi è successo qualcosa. Le maglie della tradizione hanno iniziato a sfaldarsi. Tutto è iniziato con l’opzione senza canditi. A un certo punto alcune persone hanno detto: basta cubetti di arancio, voglio solo le uvette. E questo ha aperto un portale, ha dato accesso a un universo dove oggi esistono più tipologie di panettone che formaggi in Francia – “Come volete governare un paese dove esistono 246 varietà di formaggio?”, ci chiedeva De Gaulle.
Panettoni di Armani, di Bruno Barbieri, di Emergency, panettoni di Zerocalcare, di Vogue, di Fornasetti. Giovani pasticceri si fanno fotografare mentre distribuiscono lo zucchero a velo sul loro pandoro come Michelangelo all’ultimo intaglio della Pietà. Nelle recensioni e sulle confezioni si usano parole come “alchimia”, o “dolce emozionale”. Estrema varietà, quella che Renata Salecl chiama “tirannia della scelta”, così tante opzioni che causano vertigine. Gianduia, lamponi, burro bretone, due cioccolati, tre cioccolati, quattro cioccolati, cioccolato bianco, cioccolato biondo, cioccolato monorigine, limoncello, liquore Strega, fragole candite, ricotta e pere, albicocca del Vesuvio, mandorle di Bari, arancia lucana, marron glacé, caffè e latte di mandorla, vino recioto, caramello, rum, fichi e noci. E poi pistacchi a non finire. Mandorlato, con glassa, o con crema spalmabile in abbinamento. Anche salati, ovviamente, con erbe e radici, cacio e pepe, acciughe e capperi, tartufo, parmigiano, mortadella, zafferano, capocollo, caciocavallo, peperone, cipolle di Tropea, con farina di polenta gialla, pancetta di maiale bianco, crema di tonno. Alcuni caseifici campani arrivano a fare dei panettoni tutti di mozzarella, restano solo forma e nome. Se tutto è panettone niente è panettone.
L’epoca d’oro dei foodie, l’epoca della riscoperta dell’artigianale e dell’esaltazione dell’origine geografica – anche il Dop è identity politics – l’epoca dei prodotti firmati da celebrità, l’epoca del brand, del naming e del packaging come espressione artistica, l’epoca delle classifiche di qualità, ha trovato il suo massimo rappresentante nel dolce natalizio. Da Ludovico il Moro – “l pan dal Tögn” – a Eataly ci sono voluti solo cinque secoli. Uno dei pochi orgogli dolciari meneghini è stato demilanizzato. Per spiegare il capitalismo postmoderno a un alieno basterebbe elencare i panettoni che intravediamo nelle vetrine passeggiando per un qualsiasi centro urbano della penisola. Non è un caso che Chiara Ferragni sia caduta proprio lì, sul suo fratello infantile a stella, sul pandoro. Guy Debord spiegava che il capitalismo nella sua fase più estrema si sarebbe presentato come accumulazione immensurabile di immagini, ma solo perché non aveva visto ancora l’invasione dei panettoni.