“Il pubblico dell’arte” (Johan & Levi, traduzione di Ester Borgese) dello storico dell’arte svizzero Oskar Bätschmann ridefinisce il pubblico partendo da una preziosa ricognizione dello spazio che da sempre occupa nella storia dell’arte. Una lettura non prettamente quantitativa
Negli ultimi anni si sono sempre più moltiplicate le analisi, le ricerche e il racconto dei cosiddetti pubblici del mondo della cultura, ormai obbligatoriamente declinati sempre al plurale. Il lavoro è quasi sempre – sull’onda dell’indirizzo imposto da Pierre Bourdieu – dato in carico a sociologi ed economisti. Tuttavia il risultato rischia spesso di essere controproducente, perché le ricerche commissionate finiscono per rivelarsi a doppio taglio. Se da un lato infatti queste indagini si pongono l’obiettivo di capire quale impatto i prodotti culturali generano e quindi come meglio valorizzarli, dall’altro finiscono per entrare nel merito degli stessi prodotti culturali, attuando una distinzione tra quelli capaci di generare impatto e quindi di conseguenza anche valore culturale e quelli invece che non generando impatto certificano un’inconsistenza anche culturale. La discussione è ben più ampia e spesso tanto attorcigliata quanto vacua e priva di reali riscontri scientifici, si va un po’ infatti con un lume nella notte spesso confondendo le ombre con la realtà.
Appare così apprezzabilissimo il tentativo, solido e ben strutturato, di offrire una possibilità altra di sguardo sul pubblico culturale, in questo caso quello dell’arte, attraverso un’indagine che sia prettamente storica. “Il pubblico dell’arte” (Johan & Levi, traduzione di Ester Borgese) dello storico dell’arte svizzero Oskar Bätschmann ridefinisce infatti il pubblico partendo da una preziosa ricognizione dello spazio che da sempre occupa nella storia dell’arte. Una lettura che non è prettamente quantitativa, ma capace di offrire una visione se non più corretta quanto meno più coerente della funzione del pubblico ovvero di come il pubblico assorba e divenga parte integrante del discorso culturale generato da un’opera.
E non a caso un primo riferimento è per Thomas Struth, i cui scatti fotografici – forse il più famoso è quello realizzato all’interno del Pantheon di Roma – da sempre includono il pubblico nella visione dell’opera evidenziando in questo modo come la vitalità insita in un’opera d’arte si palesi proprio nella partecipazione del pubblico e non nel ricondurre lo stesso a un ruolo di mero consumo. Bätschmann parte dalle origini ricordando come fino al XVIII secolo il pubblico fosse considerato parte integrante nella valutazione di un’opera dagli stessi artisti. Solo successivamente infatti con la nascita della borghesia e quindi con la definizione di un’élite sociale, l’arte perde il suo ruolo strumentale, sia per i nobili che la commissionano che per il popolo che ne usufruisce, assurgendo a uno spazio aureo dentro al quale diviene democraticamente percepibile da chiunque, ma comprensibile da pochi. E non è quindi così sorprendente se oggi siamo tutti nipoti di Remo e Augusta Proietti in visita alla Biennale del 1978 nelle sordiane “Vacanze intelligenti”. Pubblico senza arte ne parte in cerca d’opera e di se stesso mentre nelle in biglietteria ci chiedono ossessivamente, Da dove venite?