E’ necessario rafforzare la dimensione statuale dell’Ue, dal sistema decisionale alla difesa passando dal nodo culturale, cioè i princìpi che ci uniscono. Una guida contro le derive ideologiche, per la nostra sicurezza
Almeno in termini di presenza “imperiale”, nell’Europa centro-orientale il 1945 è finito nel 1991, quando le basi sovietiche sono state chiuse e i reparti rimpatriati. Nell’Europa occidentale questo non è avvenuto anche perché quello americano è stato un “impero liberale”, cui si aderiva spesso con convinzione, un impero fondato su forti affinità e legami etnici e culturali, oltre che valoriali, e che rimpiangeremo anche per i grandi vantaggi che procurava.
Quei legami cominciarono ad allentarsi con la fine dell’emigrazione europea, azzerata dal benessere e dalla crisi demografica, e il loro disfarsi fu accelerato dalle conseguenze del collasso sovietico e quindi dal venir meno della paura, nonché dalla crescita dell’Asia, e in particolare della Cina. E’ poi venuto il 2008 – una data della cui importanza non abbiamo forse ancora sufficiente coscienza – l’anno della crisi ma anche di Obama e del suo focalizzare l’attenzione di Washington sulle riforme all’interno e sul Pacifico in campo internazionale, due scelte che sono rimaste da allora al centro della politica statunitense, ancorché declinate in modo diverso.
L’entità della crisi del 2008 (basta andarsi a vedere il peso dell’Europa nella produzione mondiale di autoveicoli o le curve dei redditi reali) e il significato profondo del riorientamento americano non li abbiamo visti perché vedere il presente è sempre difficile ma anche perché farlo è spesso scomodo: lo confermano quanto è accaduto con la caduta della natalità, già conclamata nel 1972, e i problemi posti dal crescente invecchiamento, emersi negli anni Ottanta. Vedere significa infatti capire che non si può più vivere come nel passato, un passato che piaceva anche perché era piacevole ed è quindi duro lasciarsi alle spalle, e questo è specialmente vero per l’Europa occidentale.
Al contrario dell’Urss, crollata, gli Stati Uniti resteranno infatti comunque una grandissima potenza e il loro declino è solo relativo: negli ultimi decenni la loro economia, la loro tecnologia ecc. hanno continuato a crescere, molto più delle nostre anche se meno di quelle cinesi o indiane, che hanno attraversato un periodo straordinario, paragonabile ai nostri “miracoli”. Noi invece, se è possibile usare il pronome collettivo, siamo messi molto peggio non solo dal punto di vista demografico o economico, ma anche perché le bombe che ci proteggono nel nuovo mondo annunciato dalle guerre degli ultimi anni hanno il bottone a Washington, e le nostre principali basi militari sono ancora sotto il controllo statunitense. E perché la Nato, preziosissima e per fortuna ancora funzionante, non è riuscita a rinnovare la sua identità dopo il 1991 e rischia quindi la crisi perché espressione di un mondo che non c’è più, quello dominato dall’Atlantico e imperniato sull’Europa, almeno come principale oggetto del contendere tra le due nuove superpotenze del 1945, sostituito da un mondo che guarda al Pacifico e in cui l’Europa è solo parte, certo ancora rilevante, di dinamiche diventate globali.
Questa nuova situazione ci permette di vedere quanto sia intellettualmente e politicamente sbagliato confondere Europa e Unione europea, come invece di regola facciamo, e non solo perché – come dimostra la sua storia dal XVIII secolo – un’Europa senza Londra e San Pietroburgo/Mosca semplicemente non è tale. La nebbia retorica generata da questa confusione ci impedisce infatti di affrontare le sfide che ci stanno oggi di fronte: esse sono infatti sfide di costruzione statale e se è certo molto difficile introdurre più forti elementi statuali nell’Unione europea, farlo per l’“Europa” è semplicemente impossibile. Sarebbe quindi meglio provare a smettere di dire Europa e concentrarci invece sull’Unione europea, con la coscienza che le condizioni straordinariamente positive degli ultimi decenni sono purtroppo finite. Potremmo così vedere con più chiarezza quel che sarebbe in teoria necessario fare e ragionare su quali obiettivi sia realisticamente possibile perseguire, e come.
La via che seguirò è quindi quella di elencare in breve i problemi principali oggi di fronte alla nostra Unione, che dovremmo per prima cosa mettere, almeno nelle nostre menti, tra virgolette, senza per questo smettere di apprezzarla. Essa non è infatti davvero una unione malgrado nel 1992 si sia data, e per fortuna, questo nome. Lo dimostra il suo aver fatto proprio il principio di unanimità (che equivale al libero veto che causò il crollo della Confederazione polacco-lituana) adottato già dal Trattato di Roma, da cui nacque nel 1957 una Comunità di soli sei stati. La sua genesi fu condizionata dalla sconfitta nel 1952 del progetto di Comunità europea di difesa, dapprima sostenuto e poi affondato – non a caso – dalla Francia, e il principio di unanimità fu ribadito nell’Atto unico europeo nel 1986, che pure diede nuovo slancio all’integrazione e fu firmato da 12 paesi, il doppio di quelli del 1957. Pur riducendo le materie per le quali era richiesta l’unanimità per legiferare, esso non toccò infatti quelle che stanno al cuore di qualunque formazione statale.
La situazione non è cambiata dopo il Trattato di Lisbona redatto per sostituire un progetto di Costituzione bocciato nel 2005 dai referendum francese e olandese e firmato tra il 2008 e il 2009 da un numero di paesi di nuovo e più che raddoppiato (27). Il Trattato aumentò infatti il numero dei settori strategici su cui il Consiglio poteva decidere a maggioranza qualificata, ma lasciò il vincolo dell’unanimità per politica estera e di difesa, polizia, imposizione fiscale, sicurezza e protezione sociale, e allargamento dell’Unione, cioè i campi essenziali all’autonomia e all’esistenza di qualunque stato. L’unica posizione “statuale” conquistata dall’Unione è quindi quella della moneta unica che – visto che non tutti i paesi membri vi aderiscono – ha di fatto già introdotto il regime dei cerchi concentrici, indicando una strada praticabile anche in altri settori. Malgrado i grandi benefici che arreca, l’euro resta quindi minato dalla sua “solitudine”, di cui si potrebbe prima o poi pagare il prezzo.
Si è discusso di quanto la moltiplicazione degli stati membri e la loro crescente disomogeneità abbiano reso problematico gestire l’Unione col criterio dell’unanimità. La cosa è senz’altro vera, anche se sarebbe sbagliato dedurne che l’errore fu quello di un allargamento che ha garantito stabilità e grandi opportunità, e non solo ai nuovi membri. Ma il nocciolo del problema resta il fatto che, malgrado il suo nome e i progressi fatti, l’Unione è rimasta essenzialmente un condominio di stati riuniti per il legittimo perseguimento del loro utile, una scelta tra l’altro non priva di sostegno popolare anche se non adatta ai nuovi tempi, come dimostrarono già venti anni fa i ricordati referendum contro una Costituzione certo affondata anche da scelte incaute e non priva di una sua fragilità. Sembra inoltre di poter dire che l’avanzare di invecchiamento e aspettative decrescenti, nonché il senso di debolezza “identitario” acuito dalla perdita di status dell’Europa e da consistenti e sempre più diversificate correnti migratorie abbiano da allora accresciuto la diffidenza verso il progetto europeo e rafforzato la presa degli stati nazionali.
Il punto chiave, tuttavia, è che la storia della costruzione europea dimostra nel suo complesso l’indiscutibile vittoria politica della visione gaullista di una “Europa delle nazioni”, o meglio degli “stati-nazione”, che si è ammantata di una fitta e potente retorica europeista, non priva di una sua utilità ma anche ingannatrice. Anche per la sua radicale quanto ottimista astrattezza, il federalismo europeo non è mai riuscito a costituire una valida alternativa, e l’Unione europea è quindi così perché così la hanno voluta e la vogliono i suoi stati membri e le sue popolazioni. E’ da questo punto di vista paradossale ascoltare i lamenti sul suo indubbio carattere burocratico pronunciati da chi si è opposto a una sua maggiore politicizzazione, incentivando quindi la sua natura amministrativa.
Le sconfitte dei tentativi di introdurre più politica hanno educato negli anni gli europeisti ad abbandonare la strada delle richieste dirette, rafforzando la loro convinzione circa l’opportunità di insistere piuttosto sulla strada tracciata da Schuman dopo il fallimento del progetto di difesa europeo. La soluzione migliore è parsa da allora il puntare a una maggiore integrazione facendo leva su interessi comuni visti come la somma di quelli di stati membri convinti appunto dal loro soddisfacimento a sostenere quella integrazione. Tale via si è col tempo intrecciata col principio di sussidiarietà, che affonda le sue radici nella cultura cattolica e nelle preoccupazioni di élite politiche comprensibilmente sospettose, dopo le catastrofi delle due guerre mondiali, dello strapotere degli stati nazione centralizzati e dei nazionalismi. Bruxelles ha quindi distribuito e distribuisce risorse senza rivendicare l’averlo fatto, e i suoi finanziamenti hanno paradossalmente rafforzato statalismi e regionalismi di ogni tipo, come se di quei finanziamenti ci si dovesse in qualche modo vergognare e se essi non dovessero in alcun caso essere usati per costruire una comunità politica superiore a quelle nazionali.
Questa strategia è stata ravvivata dall’esperienza del Covid, che ha portato all’approvazione del piano di ripresa Next Generation Eu, finanziato in modo massiccio da un indebitamento in parte diretto dell’Unione, che ha preso quindi a prestito sui mercati come fanno gli stati “normali”. Come dimostra il Pnrr italiano, la sua applicazione ha però confermato l’uso essenzialmente nazionale dei finanziamenti europei, anche di quelli derivati da un indebitamento europeo diretto. Persino nel campo dell’università e della ricerca, che è per sua natura il più favorevole a cooperazione e apertura, essi sono stati concessi e vengono gestiti praticamente senza vincoli tesi a farne degli strumenti di una costruzione appunto “europea”. L’Unione quindi continua a pagare per rafforzare i suoi membri, senza spingerli a integrarsi.
Non c’è dubbio che la strategia “schumaniana” abbia dato buoni frutti, anche per le ricordate, straordinarie condizioni godute dal nostro continente fino al 2008. Ed essa funziona ancora, come dimostra il Next generation Eu: trovare occasioni per emettere debito europeo sembra perciò a molti il miglior modo per perseguirla, unendo l’interesse di stati appesantiti dal loro debito pubblico a una narrazione europea più forte dal punto di vista retorico che nella realtà: se infatti il soggetto europeo sarebbe irrobustito dalla titolarità di un debito che i singoli stati non sarebbero in condizione di contrarre se non a condizioni molto peggiori, a meno di un auspicabile cambio di pratiche i finanziamenti così generati servirebbero solo a rafforzare gli stati esistenti, come è giusto che sia, ma non a integrarli.
Il vero problema è comunque un altro. E’ certo possibile andare avanti per la vecchia strada, nobilitando con la retorica europeista gli interessi degli stati, ricorrendo a metodi indiretti per fare dei non disprezzabili passi avanti e “sciogliendo” con delle elargizioni le resistenze dei membri più riottosi, come l’Ungheria di Orbán. Ed è difficile fare altro. Ma la domanda che occorre porsi è se questa strategia permetta di far fronte ai problemi e alle sfide di un mondo nuovo, segnato dal progressivo distacco degli Stati uniti dall’Europa, dall’emergere definitivo dell’Asia e da una guerra europea che nel 2014 né Washington né l’Europa hanno voluto vedere (basti pensare al rifiuto di Obama di armare l’Ucraina e alla scelta tedesca ma anche italiana di business as usual con la Russia) ed è potuta anche per questo esplodere con rinnovata violenza nel 2022.
La risposta è purtroppo no: così non si costruisce coi tempi e l’intensità richiesti dalla nuova situazione, dal ritorno della guerra e dalla nuova scala necessaria per “esserci” in un mondo dove le potenze indipendenti hanno ormai centinaia di milioni di abitanti, tutti più o meno istruiti, e sono dotate di armamento nucleare. Dal punto di vista immediatamente politico la questione del salto di scala è forse la più importante e in questa prospettiva emerge l’affinità tra le condizioni in cui si trovano oggi gli stati europei e quelle in cui si trovarono gli stati della penisola italiana nel XV secolo, uniti nella Lega italica ma travolti dal mancato raggiungimento di nuove dimensioni diventate indispensabili.
Il perno della questione è quindi come rafforzare, al massimo e il meglio possibile, la dimensione statuale dell’Unione europea, senza ambizioni irrealistiche e ricordando che, come ha dimostrato il XX secolo, le forme-stato sono molto più numerose e malleabili di quelle consacrate dal pensiero giuridico e politico europeo, e che ci sono quindi più opportunità di quanto si possa pensare. Solo facendolo potremo tra l’altro mettere in sicurezza la geniale, ma anche azzardata, creazione dell’euro, forse prima grande moneta di un grande non-stato e che, come tale, potrebbe non reggere le tensioni legate alla ricomparsa della guerra, alle conseguenze di una guerra dei dazi con gli Stati Uniti, e all’approfondimento della crisi causata da denatalità e invecchiamento.
Un esercizio utile è identificare quali sono i terreni decisivi in cui operare, e il più importante è forse quello del sistema decisionale dell’Unione, che rischia di portare alla disgregazione in una situazione che sarà probabilmente segnata da pressioni sempre più forti sia interne sia internazionali. Per indebolire la regola dell’unanimità (che equivale al veto) si potrebbe per esempio imboccare con più decisione la via “indiretta” dei cerchi concentrici e magari anche profittare dei passi falsi di uno stato membro per sospenderlo, come le regole permettono, perché non è solo con premi e lusinghe che si costruisce.
Almeno altrettanto importante è il terreno della difesa, in cui, a complicare le cose, la strategia dell’indebitamento comune ha grosse difficoltà: non è infatti semplice consentire alla creazione di debito comune in questo campo per stati (Finlandia, Paesi baltici, Polonia, Ungheria e Grecia) che già superano l’obiettivo del 2 per cento del pil. Essi si troverebbero così a finanziare il raggiungimento di un impegno comune da parte di paesi ben più ricchi di loro, dalla Francia, che al 2 per cento è prossima, a Germania, Italia, e Spagna che viaggiano sull’1,5 per cento, all’Irlanda, col suo 0,2.
Ma la questione più delicata è quella del possesso di un proprio deterrente nucleare, su cui l’Unione possa decidere in autonomia. Oggi il nostro deterrente principale è quello di una Nato almeno da questo punto di vista sotto stretto controllo americano, cui si affianca la piccola ma indipendente force de frappe francese. Per riprendere il controllo sulla nostra difesa e quindi sulla nostra sicurezza, ridiventando “adulti” (che non è mai solo bello), ci sarebbe quindi bisogno di discutere con Parigi, riconoscendole la supremazia che di fatto ha in questo campo (un discussione non facile visti i problemi di Macron e quello che dicono i sondaggi), e porre apertamente il problema di una riforma della Nato che stia naturalmente attentissima a non liquidarla, ma sappia piuttosto usarne la struttura. Sarebbe per esempio bello almeno ipotizzare un’alleanza globale (e quindi per definizione non occidentale) politica e militare dei paesi liberal-democratici, con Stati Uniti, Unione europea, Regno Unito ma anche Canada, Australia, Giappone, Corea del sud, Israele e magari un domani India e chissà quanti e quali altri membri, che unisca chi crede negli stessi princìpi politici, sociali ed economici al di là del suo colore e della sua collocazione geografica e sia quindi più adatta al mondo di oggi di un alleanza “nord-atlantica” che ha fatto tanto bene ma le cui basi, un tempo solidissime, sono state fragilizzate dalla storia.
Alla capacità di difesa è strettamente legato il problema delle frontiere dell’Unione, oggi illuminato dall’aggressione russa all’Ucraina, ma anche dai conflitti in medio oriente e dalle politiche di una Turchia che l’Unione, dopo averla a lungo illusa, ha poi respinto senza alcuna seria discussione. Da questo punto di vista, la “soluzione” per esclusione della questione turca è stata la prima, ipocrita, manifestazione della realtà che – come ogni altro stato – anche l’Ue, se vuole esistere, deve avere dei confini, che non servono solo a tener fuori prodotti e pratiche che non ne rispettano gli standard. Essi devono poter essere controllati e difesi, come le eventuali trattative per un armistizio in Ucraina rendono chiaro: per esempio, chi presidierà, e come, quello che potrebbe diventare in futuro il confine orientale dell’Unione?
Un altro nodo fondamentale è quello che si potrebbe definire culturale. Per esistere e funzionare qualunque stato, anche il più lontano dallo standard europeo classico, ha bisogno di un discorso legittimante comune; di una lingua ufficiale di governo e amministrazione possibilmente neutra (che non privilegi cioè una parte significativa dei suoi cittadini, come ci insegna il caso indiano o quello dei tanti paesi plurietnici africani che l’hanno seguita nel mantenere la lingua dei colonizzatori); nonché di almeno un abbozzo di opinione pubblica e di stampa “unitari”.
Quello della costruzione di un discorso legittimante europeo è un problema affascinante e difficile, affrontato spesso in maniera ideologica e banale e complicato da un passato imperiale che non ci ha resi popolari nel mondo, nonché dalle scelte del 1991-92, che hanno messo coraggiosamente insieme due Europe che hanno vissuto XX secoli molto diversi, in cui parole come comunismo, socialismo e nazionalismo non hanno lo stesso significato. Ho per qualche tempo pensato che l’esperienza che ha accomunato questi due XX secoli fosse quella della sconfitta (tutte o quasi le capitali continentali sono state per esempio occupate dal nemico e spesso più di una volta) e che quindi si potrebbe forse elaborare un discorso comune basato sulla sconfitta e la saggezza che ne deriva. Penso ancora che la sconfitta sia un tema ineludibile, ma credo che per stare nel mondo di oggi occorra un discorso capace anche di fare i conti con l’imperialismo e il razzismo europei, ammettendoli ma ricordando che essi discendevano da un senso di superiorità e di potenza garantite dalle straordinarie scoperte della cultura e soprattutto di una scienza nata appunto in Europa. E’ questa scienza che permette oggi alla maggior parte di un mondo che ne fa uso di vivere una vita più lunga, più sana e più agiata che in passato, una vita cui tutti ambiscono e della cui possibilità possiamo andare fieri (più complicato è esserlo per sistemi liberaldemocratici che convivevano con impero, razzismo e oppressione). Non si tratta insomma di compiacere, ma piuttosto di avere la dignità e la visione critica di chi siamo stati e di chi siamo.
Quanto alla lingua ufficiale, la Brexit rende oggi più facile adottare un inglese che non è lingua ufficiale di nessun grande paese dell’Unione, e ha quindi quella caratteristica di neutralità fondamentale in tutte le formazioni statali plurinazionali. Questa adozione renderebbe possibile investire per creare una stampa, dei media e un’opinione pubblica di un’Unione la cui natura “retorica” è confermata dal fatto che oggi esistono al suo interno unicamente quelle nazionali. Solo così, tra l’altro, sarà possibile arginare la deriva ideologica e autoreferenziale del linguaggio delle burocrazie europee, che nasce e cresce in bolle di isolamento e privilegio che solo un’opinione pubblica europea potrebbe forare, favorendone l’evoluzione.
Del nodo “culturale” fa parte infine la costruzione di una vera rete scientifica e universitaria europea della conoscenza, indispensabile anche allo sviluppo di una industria e di servizi tecnologicamente avanzati, e che è la principale risorsa di un continente non ricco di materie prime. In questo caso potrebbe essere seguita la strategia del debito comune, cercando però di non ripetere gli errori “autarchici” del Pnrr.
L’ultimo grande nodo, e forse il più importante e complesso, è quello della crisi demografica, fatta di denatalità e invecchiamento, e del suo legame con un’immigrazione necessaria, ma che tanti temono ed è destinata comunque a provarsi un’opportunità “temporanea” visto che il crollo della natalità si espande in tutto il mondo seguendo l’avanzata di un sia pur relativo benessere. E’ qui importante far capire il prima possibile che la crisi è tale da richiedere scelte di portata ben superiore a quelle cui siamo abituati a pensare: questo sia come individui sia come società, in termini di attitudini e mentalità da cambiare e di risorse che è necessario spostare per almeno attutire la contraddizione tra interessi di breve-medio a non fare figli, e medio-lungo periodo a farli, che è la molla della trappola in cui ci troviamo. Anche in questo caso la creazione di debito europeo teso a trasferire risorse importanti alla parte più giovane della popolazione europea potrebbe essere parte della soluzione.
Quanto all’immigrazione, la cui utilità va sempre ricordata e spiegata, occorre sia riconoscere diritti e prospettive di integrazione agli immigrati che tener conto di timori che esistono e orientano la politica. La creazione di una grande agenzia europea che studi le pratiche migliori e proponga politiche capaci di tenere il più possibile insieme quei due poli fondamentali sarebbe un passo avanti importante. Al tempo stesso, se vuole farsi più stato, ancorché originale e diverso, l’Unione, come tutti gli stati, deve avere il controllo delle sue frontiere anche da questo punto di vista.
I problemi sono quindi grandi e le soluzioni difficili ma, come indica il “Rapporto Draghi”, un gruppo dirigente europeo potrebbe trovare un approccio più diretto ed elastico, capace di andare oltre il binarismo che ha contrapposto l’ideale federalista europeo all’Europa gaullista delle nazioni, diradando la nebbia retorica che ricopre entrambi. In ogni caso, dato il nuovo mondo in cui viviamo, varrebbe la pena provarci anche perché esistono forze su cui fare affidamento. Tra esse c’è ovviamente la convenienza materiale, umana e culturale dell’Unione per i suoi cittadini, come gli inglesi hanno avuto di recente modo di sperimentare; e c’è in particolare la sua enorme convenienza economica, di cui spesso però non si riescono a percepire le reali dimensioni. C’è poi una struttura giuridica la cui solidità è stata misurata dal modo ordinato con cui l’Unione ha risposto al Covid, e ci sono forse e soprattutto la nostra organizzazione sociale e il nostro stile di vita, permesso dalla scienza, che esercitano un’attrazione fortissima in tutto il mondo, come dimostrano le direzioni dei flussi migratori o la scelta degli ucraini.
E’ quindi lecito sperare che l’Unione europea non faccia la fine della Lega italica e magari anche che il passato aiuti i politici italiani a giocare un ruolo significativo nel suo rinnovamento, garantendo così un futuro migliore anche al nostro paese. Vedere con chiarezza i problemi sarebbe un piccolo passo avanti in questa direzione.