Le confessioni di Fini. Intervista al padre rimosso della destra

“Se ho perdonato Berlusconi? Il perdono non è una categoria della politica, come non lo è il tradimento. Non ci siamo più rivolti la parola. E quando è morto… ho appreso la notizia”. Meloni, Almirante e il potere perduto

Mette le mani intorno alla tazza del caffellatte che sta bevendo a colazione in un bar di Prati, e come se leggesse nel poco fumo che si leva dice: “Certo che ho nostalgia degli anni del potere, credo sia umano. Ma non ne soffro eccessivamente”. Dicono che il potere, anche in quantità omeopatiche, sia la più efficace delle droghe. “Quando lo perdi hai una crisi d’astinenza, è vero. Ma dura poco. Anche perché alla fine realizzi cos’è davvero il potere”. E cos’è? “Al netto di tutto è licenza di narcisismo. Ci sono quelli che si scappellano al tuo passaggio, non hai il problema del parcheggio perché c’è l’autista, non hai il problema di come risolvere o di sapere a che punto è la tal pratica perché basta una telefonata della segretaria. Molta apparenza, anche soddisfacente non lo nego. Ma alla fine ho capito quello che diceva Pietro Nenni nel 1963 quando nacque il primo governo di centrosinistra: ‘Da una vita sognavo di entrare nella stanza dei bottoni, la stanza l’ho trovata, i bottoni però non ci sono”.

E Gianfranco Fini, che in Italia è stato tutto, segretario e fondatore di Alleanza nazionale, padre della moderna destra italiana, cofondatore del Pdl, ministro degli Esteri, vicepresidente del Consiglio dei ministri, delfino di Silvio Berlusconi e poi anche arcinemico di Silvio Berlusconi, parla del potere perduto. Un po’ come il ricordo delle vecchie malattie superate. O come le cicatrici di un morbillo. Poi all’improvviso un largo sorriso gli si stampa su quella faccia affilata, che è sempre la stessa malgrado i segni del tempo. “Mi è successa una cosa esilarante qualche anno fa”, racconta ridendo. “Un giorno vado al supermercato, da solo. Che per me era quasi un luogo mitologico, non ci mettevo piede da quarant’anni. Quindi stavo lì in questo supermercato con la gioia quasi infantile di chi scopre assolute novità: il carrello. Mi divertivo a riempire il carrello. A un certo punto, tra gli scaffali, incrocio una coppia di anziani. Ha presente la sorella di Aldo Fabrizi?”. La Sora Lella. “Esatto. La signora era uguale. Mentre il marito era più anziano con un apparecchio amplifon e l’antennina all’orecchio. Insomma a un certo punto ci scontriamo con i carrelli, io e la signora. E lei prende a fissarmi. Mi inchioda con lo sguardo e non muove un muscolo. Non sorride. Non si arrabbia. Non manifesta alcun tipo di sentimento. Allora nemmeno io sorrido, non parlo, semplicemente indietreggio e mi allontano col carrello. Appena sono un po’ distante, avverto la voce molto alta della signora rivolta al marito sordo: ‘Ah Nando, ma hai visto chi c’è? Nun me ricordo che film ha fatto quello là’”. Sic transit gloria mundi. Uno può chiudere i conti con la storia del ventennio mussoliniano, fare Fiuggi, recarsi in Israele e dichiarare che il fascismo fu il male assoluto… ma alla fine: ah Nando, ma che film ha fatto questo? “Tutto passa. Tutto si dimentica”.

Anche quel litigio, di più: anche quella guerra civile nel centrodestra tra Fini e Berlusconi, fatta di singhiozzi, di lacrime, di veleno e di coltelli? Anche quello si dimentica? Quella guerra che si consumò il 29 luglio 2010 con l’atto finale: Gianfranco Fini espulso dal Pdl, il Popolo della libertà, il partito di cui era cofondatore con il Cavaliere. Attacchi personali, colpi bassi, insinuazioni, insulti. In politica di solito nulla è personale, perché in democrazia la politica è un teatro e nessuno può recitare in un teatro senza fingere ciò che non sente. Ma tra Fini e Berlusconi non fu così.



Tutto fu personale, in realtà. Così quei ricordi emergono tutt’a un tratto, come sugheri sull’acqua, ciascuno con il suo carico di dissapori la cui origine si perde in un passato forse nemmeno così remoto. E allora: che cos’è il perdono, presidente Fini? “Non puoi dimenticare quello che hai subito, nel bene e nel male. Il termine perdonare non lo puoi riferire all’alleanza politica. Non è politica”. Nessun perdono. E allora è vero che lei è un po’ freddo, come si è sempre detto di lei. “No, più che freddo sono razionale. La mia apparente freddezza è una maschera con la quale mi sono sempre protetto, anche dagli scocciatori. Per il resto è solo razionalità. Credo di essere sufficientemente a conoscenza di come vanno le cose. E presuntuosamente credo di conoscere quella che è la natura del mondo. Essere al centro del ring è chiaro che comporta di subire attacchi, anche personali. Specie in quegli anni e in quel momento di conflitto acuto. La cosa però, con Berlusconi, andò al di là di ciò che era lecito dal punto di vista giornalistico quando le tv misero in mezzo chi non c’entrava assolutamente nulla con la politica. Quello che hanno fatto all’Elisabetta è una roba fuori misura”. Elisabetta Tulliani, la madre delle sue figlie. “Quando si va in un campo diciamo più personale, familiare addirittura, il discorso cambia”. C’erano i servizi di Striscia La Notizia. “Insinuazioni, volgarità insistite”. Pare che in quegli anni Angelino Alfano, che era il numero due di Berlusconi, andasse dal Cavaliere dicendogli: “Presidente ma non è che Antonio Ricci sta esagerando?”. Lo sapeva lei, presidente Fini? “Certo. E Berlusconi rispondeva che Ricci fa sempre quello che vuole”. Come con gli audio di Andrea Giambruno, l’ex compagno di Giorgia Meloni. E lei pensa che sia davvero così: Ricci fa quello che vuole? “Boh. Non ci credo molto. In quel periodo c’era un punto politico: l’obiettivo ero io e andavo colpito in qualsiasi modo. Punto”. Ma ci ha più parlato con Berlusconi? “Mai. Io non l’ho mai più cercato, né lui ha mai più cercato me”. E quando è morto cosa ha pensato? “Ho appreso la notizia”. Pausa. “Feci un comunicato stampa”. Laconico. E la cosiddetta vicenda di Montecarlo cos’è stata? “Una piccola vicenda che è stata gonfiata in modo abnorme e che ha generato un procedimento giudiziario durato un tempo infinito, sette anni. Ora siamo agli sgoccioli. Nella sentenza di primo grado, c’è scritto: ‘Fini non ha tratto alcun vantaggio economico personale, né ha recato alcun nocumento alla Fondazione di Alleanza nazionale’. Il residuo di quella faccenda, l’ultimo capo d’accusa su cui ho fatto appello, è il concorso per aver accettato il dolo eventuale determinato dall’autorizzazione alla vendita di quell’appartamento. Per cui, guardi, è una vicenda per me dolorosa, ma che per fortuna è stata consegnata agli atti”.

E dunque Fini non perdona, perché – spiega – la categoria del perdono non esiste in politica. Ma nemmeno porta rancore, dice. E allora a un certo punto racconta un piccolo anzi grande episodio che riguarda Giorgio Almirante. “Ricordo il giorno in cui Almirante andò a visitare la camera ardente di Berlinguer. A Botteghe Oscure. Non lo sapeva nessuno da noi, al partito. Persino il suo uomo più fidato, Franco Massobrio, quando gli chiedevo mi rispondeva: ‘non ne so nulla’. Forse mentiva chissà. Fatto sta che il segreterio del Msi andò a Botteghe Oscure e noi lo apprendemmo dalle agenzie. Ci fu un parapiglia”. E perché? “Perché era una una cosa che faceva onore ad Almirante e alla nostra comunità politica, certo. Però era pure un gesto che andava spiegato. Specie in quegli anni. Specie per i ragazzi del Fronte della Gioventù di cui io ero il segretario. Quelli erano gli anni in cui i comunisti erano i nemici. Ci si affrontava in piazza. Nelle scuole. Nelle università. Insomma Almirante era andato dal nemico”. E che accadde? “Che dovetti andare io da Almirante con l’incarico di chiedergli conto e ragione di quell’atto politico a nome dell’esecutivo del Fronte della Gioventù. Sicché ci andai. M’ero pure preparato un discorsetto. Cominciai a parlare, e lui, brusco: ‘Senti Fini, ti fermo subito… Ti ricordi di chi è la frase Oltre il rogo non vive ira nemica?’. E io: ‘sì, certo, è di Vincenzo Monti’. E lui: ‘Ecco, appunto, e che significa secondo te? Te lo dico io che significa, significa che non si può considerare nemico chi non c’è più’. Aveva ragione Almirante. Che aggiunse: ‘Hai visto in tv le immagini del malore di Berlinguer. Hai visto che avevano tentato di fermare il comizio ma lui si rifiutava?’. Io feci cenno di sì, con il capo. E Almirante, caricando la voce, guardandomi con quello sguardo magnetico che aveva: ‘Berlinguer si è sacrificato per il suo popolo. Capisci? Sentiva il dovere di chiudere quel comizio e quel discorso’. Guardi, avrò parlato con Almirante centinaia di volte, ma questo è un episodio che ho fermo nella memoria. Lui voleva superare quella dicotomia amico-nemico che apparteneva al conflitto, alla guerra. Guardava avanti”. E però tutti dicono che lei rimosse Almirante dalla foto di famiglia di Alleanza nazionale, un po’ come Giorgia Meloni probabilmente ha rimosso lei, Fini, dalla foto di famiglia di Fratelli d’Italia. “Non è così. Non ho rimosso Almirante. Perché nella politica di Almirante c’era già quello che poi abbiamo praticato a Fiuggi. Nelle tesi di Fiuggi noi dicevamo con chiarezza che era necessario cambiare anche il linguaggio, trovarne uno adatto ai tempi: abbandonare la dicotomia politica. Non più nemici, ma avversari. L’avversario è uno che puoi battere, o che forse ti batte, ma all’interno di una contesa democratica. E civile. Esattamente nello spirito della visita di Almirante alla camera ardente di Berlinguer. Anche per questo quando si pose il problema della sua successione alla guida del partito Almirante decise di saltare una generazione”. Fu fatto un segretario che non era nemmeno nato durante il fascismo: Fini, appunto.

“Mi ricordo quando Almirante glielo disse, ai suoi colonnelli, che auspicava la mia elezione a segretario del Msi”. Erano indignati? “No, peggio. Erano basiti. Stupefatti. Era gente che era stata dentro al fascismo, erano Alfredo Pazzaglia, Franchi, Tremaglia… Erano contrari. Ma ubbidirono, malgrado la candidatura di Pino Rauti che si opponeva alla scelta di Almirante”. Poi, dopo qualche anno, venne eletto lui segretario. “Certo. Perché quando morì Almirante i colonnelli che gli avevano ubbidito mi guardarono e pensarono: ‘Vabbè ragazzino abbiamo giocato, adesso fatti da parte’. Solo pochissimi di loro rimasero con me. Tra questi c’erano Tremaglia e Michele Marchio”. Ecco, a proposito di colonnelli. I suoi colonnelli, La Russa, Alemanno, Gasparri e gli altri la tradirono? Passarono tutti con Berlusconi. “Detesto la parola tradimento. E’ una parola troppo forte, vasta, omnicomprensiva. Priva di sfumature. Avere opinioni diverse non significa tradire. Lasciamo stare i tradimenti. L’abuso di tradimento è la scorciatoia utilizzata da chi non sa spiegare un fenomeno e le sue ragioni”. L’hanno usata anche contro di lei questa parola: Fini ha tradito la destra. “Appunto. Le ho detto che in politica il termine ‘perdono’ non ha senso, e questo vale anche per la parola ‘tradimento’ che nove volte su dieci è soltanto l’argomento di chi non ha argomenti, o di non è in grado di capire le ragioni altrui”.

La Russa aveva opinioni diverse dalle sue. “Esattamente. Poi certo alcuni di loro sono stati molto incoerenti. Mi dicevano delle cose in privato, magari su Berlusconi, contro Berlusconi, mi incitavano a rompere, e poi sono andati con Berlusconi. Però guardi, non provo rancore. E’ tutta politica”. E’ un’analisi molto razionale, ancora una volta: fredda. Fini è un uomo di ghiaccio. “Guardi per me non è un insulto dire che ragiono freddamente. Sa cos’è successo ai colonnelli di An? E’ successo che a un certo punto i colonnelli reputavano che il nuovo generale fosse migliore del vecchio generale. Ci sta”. Lei fu espulso dal Pdl. “Feci male ad entrarci in quel partito. L’errore che non perdono a me stesso è di non aver valutato appieno che la personalità di Berlusconi non poteva cambiare solo in ragione di quello che c’era scritto nello statuto del Pdl, ovvero nelle garanzie di pluralismo e di democrazia interna. Berlusconi era un impresario e un uomo che comandava. Punto. E quindi non dovevo accettare la proposta di dare vita al partito unico. All’inizio parlai di comiche finali, se ricorda. Poi mi feci convincere perché a sinistra era nato il Pd. Pensavo si dovesse rispondere, e pensavo si dovesse rafforzare il bipartitismo”. Andrea Augello, che è stato uno dei grandi leader della destra romana, un giorno mi ha raccontato questa scena con Berlusconi, a Palazzo Grazioli, nelle ore in cui si consumava la rottura. Il giorno precedente la ormai famosa direzione nazionale del Pdl, quella del “che fai, mi cacci?”, il Cavaliere ricevette Augello a Palazzo Grazioli. Era il 2010. “Caro Andrea, ho apprezzato i tuoi sforzi diplomatici per ricucire lo strappo con Fini”, gli diceva Berlusconi. “Ma forse non c’è più nulla da fare. Domani presenteremo un documento. Si stabilisce che una volta discusso e votata la linea politica chi non si adegua è fuori dal Pdl”. E Augello, comprensibilmente imbarazzato: “Io per la verità credo che voterò contro questo documento”. Al che Berlusconi, voltandosi di scatto verso un proprio collaboratore, con la voce carica d’ironia: “Ma perché si può anche votare contro?”. E a questo punto un piccolo rapido sorriso si stampa sulla faccia affilata di Fini.

“L’aneddoto fa ridere”, dice. “E’ una battuta”, aggiunge. E poi: “Ma rende l’idea. Potrei raccontarne migliaia di piccoli episodi come questo. Per Berlusconi in buona sostanza, soprattutto negli ultimi tempi, governare e comandare erano due sinonimi. Il comando è tipico delle gerarchie militari o dei capitani di industria. Ma non in politica. Io e lui non potevamo convivere”. Cos’è stato Silvio Berlusconi? “E’ stato un politico abilissimo in alcune intuizioni, ma è stato un uomo che in altri momenti però difettava di quello che si suol chiamare il senso dello stato o il senso delle istituzioni”.

Il Cavaliere diceva di aver ‘sdoganato’ il mondo della destra missina. “Sdoganare. Parola orrenda. Un’espressione anche poco rispettosa, se vogliamo. Perché sono le merci che vengono sdoganate, non gli uomini, non la politica, non le idee. Se c’è uno ‘sdoganamento’ significa che c’è anche una dogana. E se c’è una dogana da superare, magari c’è anche un pedaggio da pagare…”. Vi portò al governo. “Certo, e prima sostenne la mia candidatura a sindaco di Roma. Una cosa che non mi sorprese affatto. Berlusconi aveva perso il suo referente politico, Bettino Craxi. Anche la Dc stava crollando. Dall’altra parte c’era la ‘gioiosa macchina da guerra’ di Occhetto, cioè i comunisti che lo volevano distruggere. Berlusconi si mise con noi”. E con la Lega. “Una cosa incredibile. Anche perché io a quei tempi a Umberto Bossi nemmeno gli rivolgevo la parola”. Cos’ha lasciato Berlusconi all’Italia? “Ha cambiato il modo in cui si configura l’offerta politica. Ha introdotto un modo di ragionare e vedere le cose che all’inizio mi faceva sorridere. Mi sembrava una roba da matti”. Cioè? “Lui vedeva ogni cosa come un prodotto da vendere. Ha cambiato per sempre la politica italiana, basta vedere com’erano le campagne elettorali prima di Berlusconi, per capirlo. Non è stato un innovatore, è stato un rivoluzionario”. E di cosa rideva lei quando sentiva Berlusconi? “Sorridevo di quell’aria da impresa, da piazzisti. Nel 1994 sorridevo del decalogo che imponeva di farsi la barba, di essere magri, di sorridere sempre… E poi Berlusconi è stato anche l’uomo della televisione privata, quello che ha rotto il monopolio della Rai. E ha trasformato gli spettatori in consumatori e poi, infine, in elettori. Però non voglio essere ingeneroso”. In che senso? “Nel senso che Berlusconi ovviamente non era soltanto marketing e propaganda. Lui portò nel programma di governo idee profondamente liberali. E portò anche uomini che quelle idee le sapevano incarnare”. Chi? “Melograni, Colletti, Urbani… Mi ricordo il loro stupore quando parlavano con noi di An”. Scoprivano che in fondo voi “fascisti” non eravate così male? “Scoprivano che non eravamo come ci dipingevano gli avversari di sinistra. I quali, oggi come allora, continuano ad avere lo stesso identico vizio: delegittimano. Quando un corteo di sinistra si apre con un mega poster di Mussolini che bacia Meloni in bocca c’è poco da dire. E da riflettere”. Mancanza di argomenti? “Una sinistra sottovuoto, che si rifugia nella formuletta antifascista e nella demonizzazione dell’avversario. Ma non ci credono neanche loro. E’ un artificio retorico che la sinistra usa quando la destra la batte”. Disperazione? “L’ultima risorsa”.

Ma la destra oggi è Giorgia Meloni. E’ la figlia del ‘partito’, Meloni? Si può dire? “Meloni è la dimostrazione che se arrivi in alto partendo dalla militanza, quel piedistallo su cui sei assiso alla fine è più solido. Meloni è tutta politica. Integralmente. Dalla testa ai piedi. Nel senso migliore del termine. Ha fatto la gavetta, ragiona seguendo gli assi cartesiani della politica, che sono quelli dati. Non dico che sia una scienza, la politica, ma quasi”. Matteo Salvini è il suo contrario: fa politica annusando? “Salvini lo conosco pochissimo perché quando ero in attività lui faceva l’eurodeputato. Lo incontrai solo una volta in tv. Mi ci scontrai. Le dico solo che era il capo dei giovani ‘comunisti’ padani. E ho detto tutto. Penso che abbia fiuto, ha avuto momenti in cui lui capiva perfettamente da che parte tirava il vento. E ha incarnato con successo una fase in cui più che il ragionamento era il sentimento a governare le cose”.

La Fiamma va tolta dal simbolo? “Non è un tema, non è un problema. Che ci sia o non ci sia quel simbolo non ha davvero molta importanza. C’è stato molto di più nella destra italiana: c’è stata Fiuggi. E da Fiuggi nessuno torna indietro”. Elly Schlein è l’avversario ideale per Meloni? “Gli avversari sono quelli capaci di diventare tali”. E sentendolo si direbbe che Fini stia pensando che Schlein non sia in grado di essere avversaria di Meloni. Chissà. “L’avversario emerge e spesso emerge quando non te lo aspetti”, dice. “Emerge improvvisamente. Burrascosamente. Pensate all’esplosione di Matteo Renzi, quando fu”. Allora è una leadership destinata a esaurirsi quella di Schlein? “Le leadership non sono come le batterie che quando sono scariche si spengono subito. Le cose sono lente. Una leadership finita può tirare ancora a lungo, malgrado tutto. Dura finché non si produce un’alternativa. E’ quello che sta accadendo a Salvini, per dire. Lui è senza dubbio il leader della Lega. Se fa il congresso lo vince al 90 per cento. Ma per mancanza di alternative”. E questo vale pure per Schlein? “Il problema della sinistra è che al di là di alcuni momenti unitari, unificanti, che ovviamente sono quelli più declamati a gran voce, urlati, come la vigilanza antifascista e la mobilizzazione democratica, ecco al di là di queste cose non c’è niente. Quando poi scendi giù dai rami di questi valori vaghi e arrivi alle radici del concreto, le cose non si tengono più insieme”. Che significa? “Beh, tanto per cominciare: Ucraina o Russia? Atlantisti o no? Europeisti o no? E ancora: l’economia. Il Pd può anche continuare nel mantra ‘dobbiamo redistribuire la ricchezza’, è sacrosanto, va benissimo, però a un certo punto devi anche spiegare non solo come la distribuisci ma pure come la produci la ricchezza. Guardi, pur con delle sensibilità diverse, il centrodestra è sostanzialmente molto più unito del centrosinistra. Inoltre nel centrosinistra la vicenda dei Cinque stelle, cioè l’incapacità di Giuseppe Conte di accettare la supremazia del Pd è un problema enorme. Lui vuole tornare a Palazzo Chigi. Ed è chiaro che questo complica tutto”.

Ma è vero che lei ha dato e dà ancora dei consigli a Meloni? “Nella primissima fase le suggerii un consigliere diplomatico, perché è essenziale”. Dunque vi sentite? “Guardi, io tendo a non rompere troppo le scatole”. Come tutte le persone intelligenti. “Scrivere a una donna impegnatissima che fa il presidente del Consiglio: ‘Quanto sei stata brava’ oppure ‘oh che bello’ è da stupidi. Se c’è qualcosa che reputo, da parte mia, importante da sottoporre alla sua valutazione lo faccio. Poi basta. Ma sai quanta gente ti rompe le scatole? Per cose inutili, convinta magari di farti piacere?”. E invece? “E invece danno fastidio. Non capiscono qual è la pressione psicologica che hanno addosso le persone nel momento in cui hanno una certa responsabilità. E siccome io ci sono passato, anche se le mie responsabilità erano meno importanti di quelle di Meloni, tendo a non scrivere. E non disturbare”. Questo forse andrebbe spiegato a buona parte dei parlamentari e dirigenti di Fratelli d’Italia.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori “Fummo giovani soltanto allora”, la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.

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