La nostra età dell’oro. Volti, oggetti, miti del miracolo italiano

Vent’anni di dopoguerra raccontati in un libro di economia, sì, ma fascinoso. Dalla nascita dei Pavesini agli Autogrill, dalla Ferrari alla Vespa. Poi la moda, le Olimpiadi e una marea di brevetti

Confesso, leggo con una certa difficoltà i libri di economia, scritti in un lessico formalizzato per me incomprensibile, irti come sono di tabelle, diagrammi, numeri, percentuali. Anche questo di Nicola Rossi è un trattato voluminoso e accademicamente inappuntabile. Ma già nel titolo così strano per un libro di economia, “Un miracolo non fa il santo. La distruzione creatrice nella società italiana, 1861-2021” (editore IBL libri), si intuisce che dentro quelle pagine deve esserci qualcosa di sorprendente e fascinoso che parla di noi. E infatti: per lo meno parla di me, nato nel mezzo di un ventennio d’oro, quello che va dal 1947 al 1964, dalla fine della guerra al Boom economico che Rossi spiega essere stato una stagione meravigliosa, un’epopea di creatività e di effervescenza e di libertà e di ottimismo sociale e di spiriti impetuosi. Una storia di vent’anni quasi così diversa da quella che l’aveva preceduta e quella che la seguirà, l’impasto di assistenzialismo, di lacci e laccioli, di corporazioni inamovibili. Uno strappo prima di tutto psicologico, culturale, esistenziale che incoraggia gli imprenditori ardimentosi, gli inventori eccentrici e geniali, gli avventurosi self-made men che hanno reso d’oro quel ventennio così difficile, in un’Italia schiacciata dalle macerie della guerra e della miseria. Eccoli, i protagonisti dell’età dell’oro narrati da Nicola Rossi.



E’ infatti in quel clima di disperata e febbrile effervescenza che un giovane di Novara di nome Mario Pavesi, figlio di un panettiere, apre nel 1947 un piccolo spaccio di biscotti (i Biscottini che poi diventeranno i Pavesini) sulla strada tra Milano e Torino. “Un semplice bar con tavolo e poltroncine e pergolato”: che poi sarebbe diventata la matrice, a partire dal 1959, e dunque nel cuore dell’età dell’oro dell’ottimismo sociale italiano, degli Autogrill che per tutti gli italiani neo-motorizzati, ebbri di velocità e di libertà di movimento, saranno il più ambìto punto di ristoro autostradale detto “il Pavesi”. E’ in quel clima che potranno provare la loro invenzione, diventando radiosi genitori di un simbolo italiano di successo destinato a segnare con il suo sapore divino l’infanzia di almeno tre generazioni, Piera e Paolo Ferrero, capaci di “trasformare una pasticceria in una fabbrica dolciaria”. E infatti – inchinarsi al genio – nel primo dopoguerra creano la Nutella (primo nome Giandujot, Nutella solo nel 1964: oggi 400 mila tonnellate all’anno) rovesciando un problema di penuria – la carenza di cacao – nella ricerca di una nuova combinazione di ingredienti mille volte imitata ma mai raggiunta dagli imitatori e dai competitori. E’ come se con un paio di secoli d’anticipo Giambattista Vico avesse commentato l’epopea della Nutella Ferrero coniando il motto più efficace per trasmettere l’entusiasmo, poi spento nella routine assistenzialista, che ha fatto da carburante al miracolo italiano: “Paiono traversie e sono opportunità”. Poi c’è la genialità di Beppe Lavazza che nella sua drogheria crea nel 1949 “il contenitore in latta per il caffè in polvere” per arrivare nel ‘55 a perfezionare la sua scoperta prodigiosa con la “mitica miscela Lavazza” (con la collaborazione del figlio Emilio). Ci pensassero gli apocalittici, reazionari del buon tempo andato, a immaginare qualcosa come il contenitore in latta di Lavazza oramai usato quotidianamente come fosse un oggetto esistito da sempre, mentre è il lascito di un uragano di emozioni e coraggio creativo che ha plasmato la modernità italiana.



Per non parlare, in quegli anni mitologici, dei casi più celebri. Enzo Ferrari che a Maranello nel 1947 produce la prima auto con il proprio marchio. Ferruccio Lamborghini, lacero reduce dal fronte di guerra, che nel 1948 fonda la Lamborghini Trattori “con avviamento a benzina e funzionamento a petrolio” e poi nel 1963 crea la Lamborghini Auto, con la Lamborghini Miura presentata nel 1965, e “che sarà considerata un’opera d’arte tanto da essere esposta al MoMa” di New York. O la Piaggio che nel 1946 – le braci della guerra ancora accese – mette in produzione la Vespa progettata da Corradino D’Ascanio, almeno 16 milioni di unità prodotte fino a oggi.



Ma Nicola Rossi racconta storie meno note di fantastici italiani che sentivano “dentro una forza interiore travolgente”, un fuoco che ardeva come se fosse possibile “compiere qualsiasi impresa”: si chiamava e si chiamerebbe ancora “senso della libertà” se il vento della creatività soffiasse ancora. Libertà di muoversi e creare, di fare ricchezza con intelligenza e intraprendenza, “di provare, di cambiare”: un ventennio che è stato “un unicum nella storia unitaria del Paese”, scrive perentoriamente Rossi, un periodo mai più eguagliato di “distruzione creatrice”, secondo la formula di un grande economista che pure odiava il lessico legnoso dell’economia come Joseph Schumpeter. La storia di Baldassarre Monge, un nome che oggi dice molto ai sempre più numerosi proprietari di cani e gatti, che “intuisce che le trasformazioni della famiglia italiana porteranno gli animali domestici, e con essi la loro alimentazione, a diventare parte integrante dei nuclei familiari” e fa nascere nel 1963 il settore molto remunerativo del “pet food”, di cui è attualmente leader italiano. La storia della Brembo, piccola fabbrica meccanica fondata dalla famiglia Bombassei che nel 1964 inventa “i primi freni a disco destinati al mercato del ricambio”.

E la storia che andrebbe dedicata a chi deve allevare dei neonati anche in questa stagione di inverno demografico: quella di Pietro Castelli, che a vent’anni, nel 1946, prima fonda una società distributrice di siringhe denominata Artsana “oggi operante in 150 Paesi”, e poi nel 1958, territorio temporale dei baby boomers attualmente tanto vilipesi, sfonda nel mercato dei prodotti della puericultura con l’oramai celeberrimo marchio Chicco. E poi i divani disegnati da Marco Zanuso e prodotti da Arflex dal 1947 “grazie all’uso innovativo della gommapiuma e dei nastri elastici”, sintesi di genio artistico, intuizione industriale, gusto del mercato, senso dell’innovazione, sensibilità, coraggio, sperimentazione. Tutte virtù che non potrebbero stare insieme in un unico crogiuolo, senza l’aiuto, la cornice di una temperie psicologica (il ventennio della nostra misconosciuta età dell’oro) in cui persino l’azzardo viene incoraggiato come sfida ai canoni fissi, immobili, incatenati alla tradizione, schiavi di un conservatorismo che induce alla staticità prima ancora che alla stabilità. Un’Italia uscita malconcia dalla catastrofe della guerra, le città sventrate, la miseria diffusa, il lutto quotidiano, la fame, la fatica, il ritorno triste di chi era al fronte e di chi aveva perduto una persona cara e che sente necessaria la spinta a ricominciare da capo contando sulle proprie forze e sul proprio cervello, a spezzare vincoli, a inventare, a fantasticare nuove idee. E nuovi prodotti, perché il mercato non era considerato il demonio, come spesso invece era accaduto in passato, nell’Italia post-risorgimentale e poi nello statalismo fascista, e come accadrà persino nel recente passaggio tra un secolo e l’altro.



Una breve età dell’oro. Un ventennio in cui viene sfidata l’immutabilità del carattere italiano. Nel 1953 (siamo sempre lì, in quel gustoso grappolo di anni) “Ottavio Missoni e sua moglie Rosita Jelmini aprono un piccolo laboratorio nella loro abitazione” e a casa loro, mica nella grande fabbrica, si inventano i “capi di maglieria unici per la combinazione di fantasia e colori”, in seguito chiamata “knitwear made in Italy”. Negli stessi anni, sempre negli stessi anni (basta scorgere le date e fare attenzione al loro concentrarsi nell’“unicum”, come scrive reiteratamente Rossi, di quello scorcio di storia italiana) e precisamente nel 1954 la “bergamasca Mariuccia Mandelli inizia a produrre a Milano con il marchio Krizia abiti femminili” e nasce nel 1960 a Roma, l’anno delle Olimpiadi romane che incoraggiano per la prima (ahimè ultima) volta con l’occasione dei grandi eventi sportivi le ambiziose innovazioni urbanistiche della città, “la maison Valentino fondata da Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti”.

E poi, parole di Nicola Rossi, si assiste sul finire degli anni Quaranta, al “recupero della capacità brevettuale italiana, consistente e destinato ad attenuarsi solo negli anni Sessanta per poi interrompersi del tutto con l’arrivo degli anni Novanta”, chissà perché, o forse si sa bene il perché. Ma nel frattempo, in questo intermezzo luminoso della storia italiana post-unitaria, possiamo assistere all’esplosione dei brevetti, con gli italiani che si sentono in un habitat favorevole per le loro scoperte e le loro invenzioni. Spiccano i nomi nella metà degli anni Cinquanta di Giulio Natta e del suo polipropilene, insomma della plastica che oggi sembra un crimine, un’arma del delitto ambientale da tutti detestato ma che allora fu salutato come una grande conquista della materia e dello spirito. Oppure, miracolo italiano davvero, la “Olivetti Programma 101 (la cosiddetta ‘perottina’, il primo personal computer che si conosca) di Pier Giorgio Perotto sviluppata nella prima metà degli anni Sessanta”. Un miracolo di troppo breve durata, perché nel 1963 l’Olivetti “cedette alla General Electric le proprie attività in campo elettronico”, in una spirale dai tratti così misteriosi, tra morti, contatti e circostanze enigmatiche da ispirare le più scatenate dietrologie.



E Nicola Rossi, in un libro dal carattere così accademicamente compassato, farcito di tabelle, in una vertigine di numeri e di percentuali e con una profusione scientifica di note a fine capitolo che lascia stordito il lettore non specializzato in questioni economiche come me, è però così temerario da esibire come prova sovrana di un cambiamento economico-culturale tre testi di celebri canzoni italiane che hanno scandito la storia della mentalità. Ecco, messo in musica, il primato della psicologia che produce gli strappi nella vita economica di un Paese, nella mentalità, nell’atmosfera morale, nelle categorie culturali che la modificano. E’ qui che, nel ventennio d’oro, si impone una “predisposizione verso l’affermazione personale e i diritti individuali” ed è la riscoperta dell’individuo e dei suoi talenti che crea un dinamismo nell’iniziativa economica, il famoso “unicum”.



La prima canzone è datata 1938, negli “anni del consenso” al fascismo studiati da Renzo De Felice, si intitola “Mille lire al mese” e viene portata al successo da Natalino Otto. Nel suo testo “c’è tutto ciò che non è una società dinamica”, il “modesto impiego” come aspirazione principale e la “tranquillità” prima di ogni altra cosa: “Un modesto impiego, io non ho pretese (…) una casettina in periferia, una mogliettina giovane e carina tale e quale come te”. Un invito all’accontentarsi di poco, a non avere troppo grilli per la testa. La seconda canzone, facendo un salto di decenni, è datata 1999, si intitola “Una vita da mediano” ed è di Luciano Ligabue. Non più “il modesto impiego” stavolta, ma i “compiti precisi” assegnati a chi è nato “senza i piedi buoni” e dunque deve farsene una ragione assecondando passivamente il decreto di un destino immodificabile: “Una vita da mediano, da chi segna sempre poco, che il pallone devi darlo a chi finalizza il gioco, una vita da mediano che natura non ti ha dato, né lo spunto della punta, né del 10, che peccato”. E poi, in mezzo a questi estremi, “il lampo”, la canzone simbolo dell’impetuoso ventennio che non avremmo mai più avuto. Che poi sarebbe “Nel blu dipinto di blu”, più nota ancora come “Volare”, di Franco Migliacci e Domenico Modugno, anno 1958, “l’espressione plastica di una Italia che non esita a pensare l’impensabile, le cui ambizioni non hanno limiti”. La colonna sonora di quel tempo che non sarebbe più tornato: “Penso che un sogno così non ritorni mai più… poi d’improvviso venivo dal vento rapito, e incominciavo a volare nel cielo infinito”.



E’ vero, quando parliamo di musica, non parliamo solo di musica. E ovviamente, nei decenni successivi, è risultata più romantica e trasgressiva l’idea che quel “volare” fosse l’anticipazione di un trip allucinogeno, piuttosto che lo spartito di piccoli imprenditori che si sono fatti largo, pensando in grande, a volare, a sfruttare tutte le opportunità, a farsi prendere in giro da chi perorava la causa del posto fisso, placando e smorzando ambizioni spropositate. Ma, appunto, questa lettura così palesemente falsa – Modugno che a braccia aperte canta il desiderio di acido lisergico – è il segno che quell’“unicum” verrà presto come ripudiato nella testa e nella cultura diffusa. Mentre nel blu dipinto di blu volteggiavano gli italiani ancora anonimi che inventarono nel 1948 il cedolino o quelli della Società Apparecchi Elettrici Scientifici che si immersero nella produzione di componentistica utilizzata per televisori ed elettrodomestici. E poi? Poi basta, il ventennio si conclude, l’età dell’oro svanisce. Il self-made man italiano chiude la sua epopea. Formidabili, quegli anni.

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