Dimenticare Cortés. In Spagna aleggiano i fantasmi dell’impero che fu

Tra colonialismo commerciale e quello per spartire consensualmente il mondo a tavolino. Il difficile rapporto con quelle terre lontane, a partire dal musical sull’azteca Malinche

Chi non ricorda il rimbrotto: ¿Por qué no te callas? cioè “perché non ti stai zitto?”, con cui sbottò nel novembre 2007 Juan Carlos, re di Spagna, all’indirizzo di Hugo Chávez, presidente del Venezuela? L’incidente diplomatico avvenne durante un vertice iberoamericano di capi di stato e di governo a Santiago del Cile. Chávez continuava a interrompere il premier spagnolo Zapatero mentre questi presiedeva il summit. Fino a provocare la reazione di Juan Carlos. Con eco planetaria. Al tempo di YouTube e di interazioni “social” la voce del re risuonò ovunque e a lungo. Tema musicale a ritmo reggae, trillo di suonerie telefoniche, titolo di programmi televisivi in Spagna e Argentina, refrain declinato in mille varianti sui palcoscenici dell’immenso mondo ispano americano, citazione filmica, finanche marchio di abbigliamento. Le parole del sovrano, spesso accompagnate dalla sua foto o da colori e simboli legati alla Spagna, divennero bandiere, sciarpe, magliette, meme, souvenir di ogni tipo.



Non fu solo un siparietto coram populo. Fu un modello di narrazione postcoloniale. Intanto per la personalità dirompente di entrambi i protagonisti. Da un lato, il re del ritorno della democrazia in Spagna dopo quarant’anni di dittatura, eppure designato come successore proprio dal Caudillo Francisco Franco. Il re capace di tacitare il colonnello Tejero, entrato armi in pugno nelle Cortes di Madrid il 23 febbraio 1981, e di far rientrare il golpe, coi carri armati già per strada a Valencia. Il re che iniziò a viaggiare per l’America latina in lungo e in largo, come mai avevano fatto i suoi avi che pure ne erano stati sovrani, e che esercitò la sua influenza a favore delle imprese e delle banche spagnole nel segno della hispanidad. Cioè di quell’intreccio di sangue e culture che riguarda almeno 550 milioni di donne e uomini uniti dalla stessa lingua di qua e di là dell’oceano. Forse l’unica esperienza di meticciato globale di cui abbiamo testimonianza nell’età moderna.



Dall’altro lato, Hugo Chávez. Figura controversa. Poco amato in occidente, dove era considerato poco più di un tribuno dispotico e golpista. Ma nella “grande patria panamericana” già leader riconosciuto, probabilmente il più carismatico del XXI secolo. Per il suo popolo, il “comandante” per antonomasia. L’ideatore del chavismo. Capace di coagulare consenso internazionale e di sfidare gli Stati Uniti sul terreno del neoliberismo e della politica estera in America latina. Un colonnello di origine india che era riuscito a riscattarsi dalla fame diventando militare. Uno capace di farsi eleggere quattro volte di seguito dai venezuelani, dal 1998 fino alla morte avvenuta nel 2013. Uno che si ispirava a Simón Bolívar e, forse, credeva di esserlo. Sì, proprio Simón Bolívar, il Libertador. Il generale vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento, eroe dell’indipendenza panamericana. Quel rappresentante della meglio gioventù creola di Caracas che nel 1805, durante un soggiorno in Italia, aveva giurato “sui sacri colli di Roma” di non avere pace se non avesse “spezzato le catene del dominio spagnolo in America”.



Ecco, l’affaire Juan Carlos – Chávez può essere un punto di partenza per raccontare quel che resta della storia crudele ed eroica della Conquista de America iniziata quasi per caso oltre cinque secoli fa, un venerdì 12 ottobre 1492, quando Cristoforo Colombo, veleggiando verso ovest per mari ignoti, alla ricerca delle terre d’oriente, trovò il continente americano. E nulla fu più come prima. Poco importa se prima di Colombo altri navigatori avessero raggiunto il Nuovo mondo. Con Colombo inizia l’avventura che è alla base dell’età moderna e del concetto stesso di occidente. La conquista di un impero mai visto prima per vastità e varietà. Un dominio il cui lascito ancora oggi influenza la geopolitica di mezzo mondo.



Sarà una coincidenza, ma da quel ¿Por qué no te callas? in poi, i fantasmi dell’impero su cui un tempo non tramontava mai il sole sono affiorati di nuovo come carne viva in Spagna e oltremare. Memoria di colonie che, poi, quasi mai furono colonie propriamente dette. Piuttosto province, “proiezione della corona di Spagna in America”, dice Miguel Madueño, docente di Storia contemporanea all’università Rey Juan Carlos di Madrid e direttore della rivista Guerra Colonial. E spiega: “Le colonizzazioni sono antiche come l’uomo: fenici, greci, cartaginesi, l’impero romano. Nella storia più recente possiamo distinguere due tipi di colonialismo. Quello portato avanti con l’esplorazione e le armi, lo sfruttamento delle risorse e il monopolio commerciale, di cui sarà prima protagonista la Spagna. Seguita a ruota dal Portogallo e, poi, da Inghilterra, Francia e Paesi Bassi. E il colonialismo posteriore alla Conferenza di Berlino del 1885 che servì a regolamentare il dominio dell’Africa e non solo. Una spartizione consensuale del mondo fatta a tavolino. A cui concorsero in misura diversa le potenze europee, gli Stati Uniti, la Russia e l’Impero ottomano”. Sul tema Madueño ha scritto un saggio: La Conferencia de Berlín, de la colonización de África al reparto del mundo, in corso di pubblicazione per la casa editrice Tea.



Il professore punta il dito sulla polarizzazione della politica in Spagna. Con i partiti che ormai, più che enunciare programmi, preferiscono parlare alla pancia dei potenziali elettori. Un dibattito esacerbato che arriva a toccare la corona, il suo ruolo, la sua funzione, l’identità nazionale, la stessa hispanidad. E si fa cronaca, politica, società, ma soprattutto arte, teatro, cinema, televisione e letteratura popolare, riviste e studi accademici. Una batalla del relato, come qui si definiscono le narrazioni contrastanti, che si combatte anche con l’epopea coloniale.



Per dire, il musical Malinche del compositore Nacho Cano va in scena da anni a Madrid, con grande successo di pubblico, mezzo milione di spettatori solo a teatro (c’è anche una versione tv) e un corollario di polemiche. Le quali non fanno altro che aumentare gli incassi. Adesso i biglietti sono pure scontati, ché il Black Friday non dura solo un giorno e le usanze statunitensi vanno onorate.



Scenografie colossal per uno spettacolo “totale”, con tanto di templi e selve equatoriali. In scena la storia romanzata di La Malinche, nobile azteca realmente esistita, ripudiata dalla sua famiglia, venduta ai mercanti, divenuta preda degli spagnoli che la battezzarono come tutte le altre donne. Non tanto per fervore religioso, quanto per rispetto alle leggi della corona di Spagna, che permettevano rapporti di concubinato solo con cristiane. I Re cattolici, Isabella di Castiglia e Fernando d’Aragona, avevano già promulgato le “Ordinanze per il trattamento degli indios”, cioè le Leggi di Burgos del 1512, attraverso le quali proibivano lo schiavismo e favorivano l’evangelizzazione, ancorché forzata. Così La Malinche, ribattezzata da un frate spagnolo doña Marina, con quel doña a indicare rispetto per il censo, finì per amare Hernán Cortés, leggendario conquistatore dell’impero azteco. Il quale, da par suo, capì quanto poteva essere importante il ruolo della giovane come interprete di civiltà complesse e a lui ignote come quelle maya e azteca. Con il loro corollario di lingue incomprensibili e di tribù minori da loro sottomesse.



Bernal Díaz del Castillo, soldato al seguito di Cortés, nella sua Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, 214 capitoli di cronache dettagliate, testimonia il “valore in battaglia” e il ruolo decisivo nella conquista delle terre che sarebbero divenute Messico di doña Marina. “Senza di lei, Cortés non poteva trattare alcun affare con gli indios”, scrive.



Chissà se Nacho Cano, madrileno assai pop, ha letto le pagine che Octavio Paz, poeta e scrittore messicano premio Nobel per la letteratura nel 1990, ha dedicato a Cortés definendolo come “frammento centrale della storia dell’età moderna”. Qualificando la sua impresa come “eroica e picara”, immagine di “una penetrazione violenta e di un’usurpazione astuta e barbara”. Descrivendo gli amori con doña Marina, “in cui si mescola ambizione e passione come per Antonio e Cleopatra”. Octavio Paz scrive che la sexualidad no es inocente e che la storia del Messico “non comincia con l’unione dell’Adamo spagnolo e della Eva india” ma con la morte. Con i cadaveri degli indigeni ai loro piedi.



Per Nacho Cano il Messico nasce con Martín, figlio davvero esistito, generato dall’unione tra Cortés e la sua india favorita. Martín è considerato il primo meticcio del continente, il simbolo di un popolo nuovo “figlio del mezcal” che è un distillato considerato dagli aztechi “nettare degli dèi”. Ma anche “figlio della spada e del flamenco”. Il mito delle origini, così edulcorato dalla complessità dell’esperienza storica della Conquista, non è andato giù ai critici togati, soprattutto izquierdistas. Per loro il messaggio conciliatorio del musical è al servizio del centrodestra che governa Madrid, oggi più che mai capitale panispanica. In una Spagna in cui, secondo le statistiche, il saldo positivo delle nascite è dovuto agli immigrati provenienti dall’America latina, soprattutto Colombia, Venezuela, Ecuador, Argentina e Perù.



In cambio la visione woke e “politicamente corretta” del tema coloniale è stata esposta a Madrid in due grandi mostre aperte per mesi e chiuse quasi in contemporanea settimane fa. La prima dal titolo: La memoria colonial en las colecciones Thyssen-Bornemisza nell’omonimo museo che si apre sul Paseo del Prado. L’altra intitolata: Un réquiem por la humanidad presso La Casa Encendida, spazio espositivo con laboratori, biblioteca e un negozio di commercio equo-solidale a poche centinaia di metri dal Thyssen, nella zona a più alta densità museale di Madrid. In comune la rilettura del potere coloniale, del razzismo e delle disuguaglianze per come sono state immortalate dall’arte e dalla produzione culturale di quell’epoca. Al museo Thyssen, la pittura, perché secondo i curatori “ciò che occulta è spesso più importante di ciò che manifesta”, con ritratti di famiglia che includono servi o schiavi dalla pelle scura a rappresentare lo “status” raggiunto, nature morte adagiate su carte nautiche, la nuova Arcadia tropicale con piante e frutti ignoti in Europa, lo straordinario sviluppo dei porti in Spagna e oltremare per favorire i commerci e lo sfruttamento delle terre americane, fino alla lotta per i diritti civili iniziata, però, quando la Spagna aveva già perso da tempo lo status di superpotenza coloniale.



Alla Casa Encendida in mostra la storiografia con documenti di ogni tipo, inclusi trattati giuridici, teologici, filosofici e finanche scientifici, cioè la produzione tesa a costruire l’egemonia razziale dell’occidente a partire dalle spedizioni di Colombo. E a partire dalla celeberrima Brevísima relación de la destrucción de las Indias, pubblicata nel 1552 dal frate domenicano Bartolomé de las Casas, il primo ecclesiastico ordinato nel Nuovo mondo. Considerato protector de los indios e divenuto vescovo del Chiapas, consigliò all’imperatore Carlo V di importare schiavi neri, di cui non la Spagna, ma le altre potenze coloniali cominciavano a far commercio. Sembra che siano stati proprio gli scritti di Bartolomé de las Casas a dare origine alla cosiddetta Leyenda Negra nata nel XVI secolo per demonizzare i conquistadores spagnoli. Solo loro spietati e sanguinari in un’epoca di forti rivalità tra le potenze coloniali europee.



“Le conquiste si fanno con le armi, non con i fiori”, dice Miguel Madueño. “E’ violenza. Sempre. Ma alcuni dati sono significativi. Anche del nostro meticciato. Negli Stati Uniti solo l’uno per cento della popolazione è nativa, in Ecuador il 70 per cento, in Bolivia poco meno. Gli spagnoli uccidevano con proiettili e cannoni. La conquista del West nell’America del nord, così ben raccontata da Hollywood, spazzò via le tribù indigene”. E il professore elenca alcune stime: “Nel 1700 all’inizio dell’epopea del Far West si calcola che ci fossero 10-15 milioni di indiani. Si ridussero a 250 mila nel 1890, alla fine della conquista. I coloni bianchi fecero tabula rasa delle società indiane, dei territori indiani. Nel 1700 nelle praterie nordamericane vivevano decine di milioni di bisonti. Nel 1890 ne erano rimasti vivi solo 750. I progenitori di quelli che oggi sono tutelati e pascolano selvatici nel parco di Yellowstone. Gli indiani del Nord America, privati di sostentamento e dei loro modi di vivere, decimati dall’alcol e dalle malattie portate dai bianchi, furono così confinati nelle riserve”.



Sarà per questo che proprio negli Stati Uniti la cancel culture in versione anticoloniale se la prende con le statue di Colombo, abbattute o almeno sporcate di vernice color rosso sangue, per via del peccato originale di cui si è macchiato scoprendo il Nuovo mondo? E in Messico si monta un caso mediatico intorno alla cosiddetta “agenda perdono” per cui non si invita il re di Spagna Felipe VI alla cerimonia di insediamento della neoeletta presidenta Claudia Sheinbaum perché non si è ancora formalmente scusato per il sangue versato nella Conquista? “La storia non va mai giudicata”, taglia corto il professore Madueño. “Bisogna interpretare i fatti tenendo conto del contesto in cui avvengono: epoca, luoghi, e così via. E’ ridicolo chiedere perdono per la Conquista. Ma la Spagna deve ancora prendere coscienza della sofferenza che ha provocato”.



Che avrebbe detto il presidente Chávez? Il quale dopo l’incidente del ¿Por qué no te callas? a lui indirizzato da Juan Carlos di Borbone, commentò da par suo, tra il serio e il faceto: “Che fortuna che il re non avesse il microfono e che, quindi, non sentii le sue parole sul momento. Altrimenti gli avrei mandato contro cariche di militari a cavallo”.



E tornano in mente le parole che su Chávez scrisse Gabriel García Márquez, altro grande Premio Nobel della letteratura ispanica, dopo aver trascorso assieme ore in aereo tra L’Avana e Caracas. “Mi colpì l’impressione d’aver viaggiato e intrattenuto una piacevole conversazione con due uomini contrapposti. Uno al quale un ineluttabile destino offriva l’opportunità di salvare il suo paese. E, l’altro, un illusionista che poteva passare alla storia come un despota tra tanti”. L’eterno Giano bifronte del continente latinoamericano.

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