Caro maestro Muti, il problema non sono gli smartphone ma i senatori

Al Senato gli squilli dei cellulari hanno interrotto il concerto di Natale. Ma non c’è da stupirsi: da quando c’è il suffragio universale chi è eletto diventa lo specchio del popolo che rappresenta

Stutatelo, questo Senato. A un certo punto Riccardo Muti si è lasciato andare all’esasperazione, giustamente irritato dai trilli che l’hanno interrotto un paio di volte durante il concerto di Natale a Palazzo Madama, ma la sua comprensibile ira ha sbagliato bersaglio: col pittoresco termine dialettale ha invitato a spegnere i telefonini, quando invece il problema non sono gli smartphone, sono i senatori. Nell’antica Roma, infatti, il Senato era stato creato come adunata di anziani dignitari, coloro che avevano già dimostrato di essere utili allo Stato e, pertanto, di poter servire a qualcosa anche consigliando l’indirizzo politico. Senza andare tanto lontano, ai tempi dello Statuto Albertino i senatori erano tutti nominati fra ambasciatori, magistrati, militari, esperti di finanza, intellettuali, capitani d’industria e “coloro che con servizi o meriti eminenti avevano illustrata la Patria”; ancora oggi, nel Regno Unito, la Camera dei Lord è composta con criteri simili. L’ho già detto ma non è bastato, quindi lo ripeto ancora: se il Senato viene eletto a suffragio universale, i senatori cessano di essere un esempio e diventano lo specchio del popolo che rappresentano, quindi è il minimo che lascino squillare i telefoni durante un concerto di musica classica. Il motto SPQR, oggi eternato sui tombini romani, indicava che Senato e popolo fossero due cose diverse chiamate a cooperare fianco a fianco. Adesso invece il Senato è il popolo; il maestro Muti si illude, se spera che a Natale sia possibile distinguerli.

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