Il concetto malleabilissimo di “natura” continua a essere sfruttato per cercare di attirare il pubblico che, oltre la monografica del nome celebre o all’immersività selvaggia, cerca solo la “riscoperta” verde
Nella primavera del 2019 apriva la ventunesima Triennale di Milano dal titolo “Broken Nature – Design Takes on Human Survival” curata da Paola Antonelli. Alla presentazione c’erano dieci gradi più del previsto, segno dei tempi. Negli stessi spazi era ospitata anche la mostra “La nazione delle piante” a cura del botanico bestsellerista Stefano Mancuso dove le sequoie, in un mondo ideale, prendevano posto all’assemblea delle Nazioni Unite per parlare dei propri problemi e delle proprie soluzioni, come in una scena dove gli Ent del Signore degli Anelli finiscono davanti ai senatori galattici sul pianeta Coruscant nell’universo Star Wars.
Era l’inizio, almeno in Italia, di un rinascimento che ha dato vita a un interesse allargato – complice, di base, l’ansia per il global warming, Greta e i nuovi eco-studies – per tutto ciò che usa foglie e parole come “natura” nel titolo. Libri, tanti, tantissimi, nuove sezioni nelle librerie per mensole una volta prerogativa di zie iscritte al Fai con l’abbonamento a Gardenia, e mostre con alberi appesi e idroponica e begonie invasate nelle sale di musei e fondazioni, esaltazione di giardinieri e paesaggisti – come Gilles Clément, nuova guida morale – e presenza di filosofi alla moda come Emanuele Coccia, triennalista e normalista, che hanno studiato questi temi arrivando anche in Amazzonia in situazioni salgadiane (cercando di spiegare al mondo cos’è davvero la natura). I milanesi ricorderanno anche la libreria- caffè letterario Walden, che nel frattempo ha chiuso (tra i soci anche Leonardo Caffo).
E, appunto, le mostre: al Muba la mostra per bambini per “giocare e scoprire la natura con nuovi occhi”, a Venezia “In rerum natura”, dentro il rapporto Uomo e Natura, Natura in posa a Treviso, “Natura/Utopia” a Perugia, “Tocco di Natura” al Muse, “Mutual Aid, arte in collaborazione con la natura” al castello di Rivoli, “Occhi sulla natura” sul Brenta, Natura in tutti i sensi a Roma, Ex Natura a Villa Panza, Essenze naturali in Sardegna, Be Natural/Be Wild a Biella… Anche l’esposizione della canestra di frutta di Caravaggio diventa occasione per presentare “enigmi e segreti della natura”. E restiamo solo qui nella penisola, per non coinvolgere Fondation Cartier e Met e altri abusi del green.
Il concetto malleabilissimo di natura continua a essere sfruttato per cercare, anche quando alla base manca l’humus intellettuale, di attirare il pubblico che, oltre la monografica del nome celebre o all’immersività selvaggia, è abituato a questa “riscoperta” verde. L’ultimo esempio è la mostra dal titolo ben poco fantasioso di “Naturae” nelle scuderie del castello di Miramare, a Trieste, luogo di resistenza aristocratica, piccola torre di Londra adriatica dove ammirare lo scettro dell’imperatrice Carlotta. La mostra, costellata da frasi da Baci Perugina sulla natura attaccate ai muri – “Dobbiamo coltivare il nostro giardino”, Voltaire – non sembra appunto fare i conti aggiornati con la letteratura scientifica sul tema. Contiene però opere di bravissime artiste contemporanee – non solo il video di Marina Abramovic che prende in faccia le onde di Stromboli – ma anche Rebecca Horn, e la fantastica Sophie Ko, che sa giocare elegantemente col tempo. Nel giardino, sotto un grosso cavallo di Mimmo Palladino, una scritta sul mare di Bianco-Valente, crea un’ottima occasione ghirresca per Instagram.