C’è da sperare che agli annunci del neo presidente non seguano misure significative. Se l’aumento dei dazi rimarrà di entità modesta e unilaterale, gli effetti globali dovrebbero essere economicamente irrilevanti. Altrimenti per l’Europa potrebbero presentarsi scenari preoccupanti
I ripetuti annunci del presidente Trump a conferma delle sue intenzioni di imporre dazi sulle importazioni degli Stati Uniti destano preoccupazione tra le banche centrali ancora impegnate nel rientro della fiammata inflazionistica del 2022-23. Se e quando avverrà, l’imposizione di un dazio (tra il 10 e il 20 per cento, stando alle dichiarazioni di Trump) su tutte le importazioni Usa si tradurrà con alta probabilità in un aumento sia dei prezzi al consumo, sia dei prezzi dei beni intermedi e di beni capitali importati dalle imprese statunitensi. Stimare l’effetto sull’inflazione è complesso, perché questo dipende dalle decisioni delle catene di distribuzione (che generalmente attenuando gli effetti dei dazi) e dalle strategie di mercato delle imprese estere. Gli effetti sono molto differenti, inoltre, a seconda che le iniziative di Trump diano vita a ritorsioni.
Dazi e guerre commerciali per motivi politici sono ovviamente solo un capitolo nel libro dei rischi contemplati dalle banche centrali. Ma oggi si prefigurano come rischi imminenti, quindi richiedono una riflessione tempestiva. Data l’esperienza del primo mandato Trump, sarà improbabile che le imprese estere reagiscano a un dazio Usa riducendo i prezzi all’esportazione e i profitti. Negli Stati Uniti, questo significa rischio di inflazione importata al consumo e un aumento dei costi di produzione. In questo scenario la Fed si troverebbe di fronte a una scelta difficile. Una manovra restrittiva conterrebbe gli effetti del dazio su inflazione e costi di produzione, al prezzo di ridurre attività economica e occupazione, quindi andando contro un obiettivo dichiarato della politica protezionistica. Una politica accomodante aiuterebbe le imprese a produrre di più a costi più alti (protette in ogni caso dalla concorrenza esterna dal dazio), ma non fermerebbe l’inflazione. Dato il mandato della Fed, la scelta cadrà con alta probabilità sulla prima opzione.
In Italia, come nel resto del mondo, un dazio imposto unilateralmente dagli Usa avrebbe effetti recessivi, per l’effetto combinato della perdita di competitività delle nostre imprese nel mercato statunitense e della restrizione monetaria della Fed. In Europa come in altri paesi le banche centrali avrebbero una ragione in più per sostenere l’attività economica mantenendo tassi di interesse bassi. A parità di condizioni, dazi unilaterali degli Stati Uniti si tradurrebbero quindi in una divergenza delle politiche monetarie, restrittiva negli Usa e anticiclica altrove, con il risultato di apprezzare il dollaro. Come discusso in un lavoro congiunto con Paul Bergin dell’Università di California a Davis, la Fed verrebbe aiutata dal fatto che per una larga parte dei beni scambiati nei mercati internazionali i prezzi sono fissati in dollari, e questo riduce gli effetti di un apprezzamento del dollaro sulla competitività delle imprese Usa rispetto alle concorrenti estere (almeno nel breve periodo).
Lo scenario più preoccupante è tuttavia quello dominato da ritorsioni e guerre commerciali, in un gioco al rialzo generalizzato dei dazi. Oltre a produrre ingenti danni di lungo periodo, una guerra commerciale si tradurrebbe anche in una difficilissima fase di transizione ciclica. Gran parte della discussione oggi è incentrata sugli effetti di offerta, dovuti all’impennata dei costi di produzione che sarebbe prodotta dalla distorsione dei prezzi relativi dei beni intermedi nelle catene di produzione. Sarebbe miope tuttavia dimenticare l’effetto potenzialmente dirompente sulla domanda globale. Nel lavoro con Bergin, abbiamo stimato che l’effetto di breve-medio periodo di una guerra commerciale sarebbe quello di un forte impulso di stagflazione. Globalmente, a una pressione sui prezzi al consumo principalmente dovuta all’effetto diretto dei dazi, si accompagnerebbe una forte pressione di segno opposto sui prezzi alla produzione: alla caduta della domanda di esportazioni dovuta ai dazi si aggiungerebbe un effetto a catena di caduta della domanda interna a seguire la contrazione dei redditi.
Ovunque, le banche centrali sarebbero combattute tra contrastare l’inflazione (al consumo) e sostenere l’occupazione (e i prezzi alla produzione). Il dollaro potrebbe deprezzarsi in questo scenario, dato che la Fed si troverebbe comunque in una posizione di privilegio nel perseguire politiche espansive.
Gli scenari appena descritti non sono previsioni, ma contributi a una riflessione su cosa peserà sulla politica monetaria negli anni a venire. C’è da sperare che agli annunci del neoeletto presidente non seguano misure significative. Se l’aumento dei dazi rimarrà di entità modesta e unilaterale, gli effetti globali dovrebbero essere economicamente irrilevanti. Il vero rischio – per le banche centrali come per i governi e i cittadini – è che alle parole seguano fatti, e che questi inneschino un clima di conflitto e ritorsioni.
Giancarlo Corsetti, Istituto Universitario Europeo