Appunti e note a memoria. I Vangeli, una storia lunga duemila anni

Gesù non chiama di certo sullo smartphone, ma vale sempre la pena tenerlo in tasca. Papa Francesco ha suggerito di comprare un Vangelo da portare sempre con sé: “Tutti i giorni leggete qualcosa. E se qualcuno non può pagare, lo pago io, chiedetelo a me”

Davvero le cose sarebbero andate diversamente, se gli apostoli avessero avuto a disposizione, nelle loro bisacce o nelle tasche delle tuniche, dei performanti smartphone? Ne sapremmo di più? Con più certezze? Invece di avere tre racconti simmetrici e convergenti (sinottici) e uno più elaborato e tardo – diciamo un longform d’autore – avremmo una miriade di post, di miracoli instagrammati, di video postati. Una ridda di “POV” moltiplicata all’infinito dai discepoli-follower che se li rimpallano, da Efeso a Tessalonica. Tenersi in tasca un Vangelo grande come uno smartphone è una buona idea, del resto l’ha suggerita anche Papa Francesco: “Comprate un Vangelo tascabile, e tutti i giorni leggete qualcosa. E se qualcuno non può pagare, lo pago io, chiedetelo a me”. La stessa intuizione del cardinale Matteo Zuppi: “Piccolo, si tiene in mano come un telefono, ma racchiude tutto”, osserva nella bella introduzione che ha accettato di scrivere per il nostro Vangelo fogliante. Dice Zuppi che il Vangelo – noi vi proponiamo quello del suo omonimo Matteo – “è il tesoro prezioso da cui tirare fuori cose nuove e cose antiche” (è un versetto di Matteo, appunto). E spiega che “non è un racconto, non è una lezione… E’ Gesù che ci parla e ci invita a entrare in dialogo con lui”. E chi siamo noi, per chiosare?

Per fortuna però i Vangeli non li hanno scritti con lo smartphone e nemmeno con un chatbot (per i famosi apocrifi non è che la logica redazionale sia diversa) e se è indubitabilmente vero, come insegna Zuppi, che in essi Gesù ci parla direttamente (“Gesù è un Tu, il migliore Tu”) è però vero che il Nazareno non chiama da un telefono, non manda Whatsapp (del resto nemmeno la Madonna è “una postina”, aveva ammonito con una certa ruvidezza Papa Francesco). No, i Vangeli sono innanzitutto appunti, taccuini, note mandate a memoria e rimandate a una futura redazione. Fatti e frasi ripetuti migliaia di volte davanti a nuovi amici dai testimoni e da testimoni di testimoni. Nelle case, nelle piazze. Alla fine (ma non fatela breve, è una vicenda lunghissima) i Vangeli sono divenuti il condensato di quelle tracce di memoria, e di parole dette a uditori diversi. Il loro fascino non è oracolare – per quanto all’inizio potessero essere i “Detti di Gesù” – ma narrativo. Un docudrama. O come non si stancava di ripetere don Giussani, la cosa importante non è sentire le voci, ma “mettersi nelle condizioni naturali, logistiche, in cui Cristo si è venuto a trovare: il paesaggio che ha visto, le rocce che ha calpestato, le distanze che ha camminato”. Abbiamo scelto il Vangelo di Matteo non perché sia il primo o il maggiore, non c’è una scala gerarchica. Ma perché quello di Matteo Levi, il pubblicano beccato da Caravaggio nella taverna, è il più completo e lineare. L’unico scritto all’inizio in aramaico. Perché Levi, uno dei dodici, parla al suo popolo, ai primi seguaci ebrei, deve dimostrare per tabulas da dove viene Gesù e come in lui si compiano le scritture. Pasolini scelse Matteo per il suo film perché è la narrazione più vicina al mondo giudaico, anche se poi lo girò a Matera, “sotto quel sole ferocemente antico”. Del resto anche Bach trascrive parola per parola il lungo racconto di Matteo, per la sua più grande Passione.

Per due millenni presi come indiscutibile parola sacra, negli ultimi secoli la critica, cattolica e protestante, li ha scorticati: troppo diversi e contraddittori per essere veri, in sintesi. Il Gesù della storia non è il Cristo della Fede, eccetera. Per l’osannato, anche dai cattolici, studioso protestante Rudolf Bultmann l’incarnazione sarebbe addirittura una elaborazione gnostica. In effetti sono misteriosi, nelle ricorrenze e nelle differenze. Quando si dice “è il Vangelo”, in realtà di solito si ignora che sono invece quattro, e molto diversi.

Da tempo si è capito che il primo a fare la sua comparsa fu quello di Marco. Un Giovanni-Marco figlio di primi seguaci, nella cui casa a Gerusalemme si sarebbe svolta l’ultima Cena: sarebbe lui il giovinetto che fugge nudo e spaventato dal Getsemani (del resto lo racconta solo lui). Poi Marco diventa discepolo di Pietro, va a Roma con lui. Scrive lì, in greco, e quel che scrive è soprattutto la versione scarna, drammatica, del ruvido e passionale pescatore. E scrive subito, a testimoni viventi, forse prima del 50 d.C. (faccenda che non è mai piaciuta ai teorici del “Cristo della fede” inventato ex post). La sua è la narrazione più concisa e più densa d’azione della “buona notizia”. Tanto da avere affascinato Sandro Veronesi, che ne scrisse in un suo libro, “Non dirlo – Il Vangelo di Marco”: “Io mi assumo la responsabilità di mostrare quanto questa primitività di Marco sia semplicemente moderna”. Veronesi è colpito da un Dio che sembra non volersi rivelare come tale, dallo stupore di chi lo incontra (la gente “corre” da lui). Marco non sta a catechizzare. Parla ai romani, non gli serve raccontare la nascita di Gesù e la sua infanzia, specialità di Luca. Secondo i biblisti la vera conclusione del suo racconto sarebbe questa: “Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura”. Una chiusa senza l’annuncio della Risurrezione (Matteo finisce invece così: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”).

I dodici versetti finali sono probabilmente un’aggiunta successiva.
Enorme è il dibattito se sia esistita una “Fonte Q” (da “Quelle”, fonte in tedesco), una raccolta primitiva di fatti e frasi di Gesù già in uso tra chi predicava nei primi anni. Probabilmente sì, anche se non basta a spiegare del tutto la logica dei “sinottici”, né l’ultimo Vangelo, quello di Giovanni.
Ciò che colpisce il lettore non specialista (curiosamente più i laici o agnostici che i cristiani, che spesso si accontentano di ciò che sentono in chiesa) è che ci sono apparenti contraddizioni, mancanze o aggiunte. In verità comprensibili per come le tradizioni si sono formate. Emmanuel Carrère, grande scrittore e perfetto esemplare di gnostico-ateo dei nostri tempi intrisi di scetticismo, ha scritto un romanzo per lunghi tratti di autofiction, “Il Regno”, dedicato alla fascinazione-confutazione della figura di Paolo e del Vangelo di Luca, l’amico e segretario di Paolo. Disquisisce con curiosità della “Fonte Q”, è attratto da questo medico, letterato e secondo la tradizione pittore e primo ritrattista di Maria. E da come il suo racconto – il più elaborato di tutti, è quello che ad esempio fissa la scena canonica dell’Annunciazione e inserisce (la scrive lui?) la preghiera del Magnificat – sia riuscito a incidere così tanto nella crescita di “quella piccola setta ebraica che sarebbe diventata il cristianesimo”. Forse la risposta è che Luca, seguendo Paolo nei suoi itinerari, parla a un uditorio colto ed ellenizzato, disposto ad ascoltare storie solo se ben raccontate (“Su questo ti ascolteremo un’altra volta”, dicono a Paolo gli scettici dell’Areopago).

Infine c’è Giovanni, il cui greco tornito e profondo ha affascinato tanti classicisti, compreso Salvatore Quasimodo. “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Non sono più semplici appunti, ma la riflessione durata una vita da parte “dell’apostolo che Egli amava” e della sua cerchia ristretta di amici, a Efeso: la “scuola giovannea” a cui oggi si attribuisce la stesura del testo, che nei secoli è diventato però la chiave interpretativa più profonda per comprendere gli altri. I Vangeli sono una fonte labirintica perché umana, troppo umana. Sono appunti su questo Gesù che ha camminato tre anni come uomo tra gli uomini (e le donne: molte donne nei Vangeli, per quell’epoca). Gesù non chiama sullo smartphone, ma vale sempre la pena tenerlo in tasca. Per “tirare fuori cose nuove e cose antiche” (Matteo, 13,52).


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  • Maurizio Crippa
  • “Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini”

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