Ottavia Piana non è una turista in infradito a 2.500 metri

Cosa non torna nelle polemiche sul salvataggio della speleologa bloccata all’interno dell’Abisso Bueno di Fonteno

In un mondo camminato e navigato da uomini per secoli, mappato prima su carta e poi dall’alto, ormai da addirittura fuori dall’atmosfera terrestre – e quasi tutto in 3d – dai satelliti, l’unica cosa rimasta ancora da esplorare è il sottosuolo. Quello che i satelliti non vedono. La curiosità, l’accettazione del rischio dell’ignoto è stato ciò che, almeno in parte, ha fatto progredire l’umanità, l’ha spinta a farsi domande e a cercare le risposte per risolvere problemi che sembravano irrisolvibili. Ora che le domande sono extraterresti o subtrerrestri possono sembrare meno importanti. O forse, semplicemente, abbiamo solo la presunzione che non ce siano più di domande davvero interessanti, domande per le quali si può rischiare tutto pur di trovare una risposta. O magari non è nemmeno questo, è solo che in un paese dove ogni anno si moltiplicano i salvataggi di incauti turisti finiti in infradito su sentieri costieri a strapiombo sul mare o di alta montagna, ci siamo abituati al ditino puntato e all’indignazione nei confronti di questi “ladri di risorse pubbliche”.

Ottavia Piana però non è come quei turisti in infradito a 2.500 metri colti a zonzo per la montagna da una tempesta di neve. Ottavia Piana non era una sprovveduta, non ha fatto niente del genere e certe accuse, tipo “parassita”, “dovresti pagartele te le spese dei soccorsi”, “ci tocca pure salvare gli imbecilli”, non merita di sentirle.

Ottavia Piana è stata salvata nella notte del 18 dicembre, dopo essere rimasta intrappolata per ottanta ore nell’Abisso Bueno di Fonteno nel Bergamasco. Era caduta, aveva fatto un volo di diversi metri. Per salvarla hanno collaborato – non tutti contemporaneamente – in oltre centocinquanta, perché andava salvata a ogni costo.

Si era già trovata in quella situazione le speleologa. E sempre nell’Abisso Bueno di Fonteno. Entrare in una grotta ed esplorarla non è come correre in un parco la domenica. Non c’è una carta escursionistica che ti dice dove andare, non c’è una ferrata che ti indica la via. È esplorazione, esplorazione vera, l’ultima che c’è, a eccezione di qualche foresta. Ed esplorare una grotta vuol dire entrare nella terra, vedere cosa c’è sotto. Ci si va per spesso per passione, a volte per studio. Non tutti quelli che studiano però si possono calare in una grotta ed esplorarla.

Nel 2000 la geologa Marie Tharp – scienziata che contribuì con i suoi lavori a far accettare alla comunità scientifica la teoria scientifica della tettonica a placche – lodò pubblicamente gli speleologi americani che “volontariamente e per passione contribuivano a dare materiale di studio ai geologi e ai biologi. Sono gli occhi e le braccia e le gambe che non tutti possono avere, sono quel qualcosa in più che gli scienziati della Terra non sempre hanno”.

Ottavia Piana non era in una grotta per passare il tempo. Certo era appassionata di quello che faceva, certo faceva altro per portare a casa lo stipendio, ma la speleologia non è uno sport. In quella grotta ci era finita con il suo gruppo in accordo con la Società speleologica italiana (Ssi) che è associazione di protezione ambientale impegnata a disegnare la geografia di quello che sta sottoterra, che non è un’ente di ricerca forse, ma che ha sempre collaborato con scienziati e ricercatori. Ottavia Piana è una volontaria, appassionata, che nelle grotte entra sì per passione, ma anche per tentare di capire cosa c’è sotto di noi. Al Fatto quotidiano, Sergio Orsini, presidente della Società speleologica italiana, ha dichiarato che “già lo scorso novembre era andata a Bueno Fonteno per recuperare dei fluorocaptori (o fluocaptori, ndr), cioè strumenti che servono a verificare se in un determinato punto sotterraneo sia presente la fluoresceina sodica, una sostanza colorata innocua per l’uomo versata in superficie su un corso d’acqua conosciuto e utile a tracciare i percorsi sotterranei per capire, nel caso ci sia un inquinamento, dove questo ha luogo, da quale sorgente sgorga l’acqua e quale terreno l’ha assorbita”. Piana era impegnata, insieme ad altri otto speleologi, nel Progetto Sebino, un progetto di ricerca molto ambizioso che si prefigge, nel corso di un tempo sufficientemente esteso, di impostare e attivare uno studio il più possibile completo cercando di indagare tutti i più rilevanti aspetti scientifici che la disciplina speleologica contempla.

In quella grotta, Piana è caduta per dare anche la possibilità a chi studia e prova a capire quello che c’è nel sottosuolo di farlo in maniera più approfondita. E in quella grotta è caduta da volontaria della Società speleologica italiana, ben consapevole dei rischi a cui andava in contro e coperta da assicurazione per quello che sarebbe accaduto all’interno. Cosa normale, eppure ignorata da chi con faciloneria voleva dipingerla come un’incapace dedita al rischio.

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