Elogio della deterrenza, che con la forza porta pace e stabilità

Determinazione e deterrenza alla fine conducono alla vittoria. La lezione mediorientale per l’Ucraina di Zelensky

Deterrenza: una parola afflitta dal gravame dello specialismo geopolitico e militare. Ma un semplice raffronto tra quanto sta succedendo in medio oriente e in Ucraina fa capire la sua importanza. Con l’imputazione di crimini di guerra nel campo delle armi chimiche e batteriologiche, suffragata dai servizi occidentali e inglesi, i servizi ucraini hanno rivendicato l’uccisione del generale Kirillov in una strada della capitale russa. Mentre va avanti l’offensiva nel Donbas, i russi minacciano una rappresaglia su Kyiv i cui contorni ancora non si capiscono, ma si sospetta possa essere roba molto seria, visto il calibro dell’obiettivo colpito, con una rivendicazione aperta, dal nemico. Da oltre un mese Biden è un’anatra zoppa, e già la sua sostituzione come candidato, molti mesi fa, aveva indebolito la capacità della Casa Bianca di reagire all’offensiva russa con una simmetria della forza, appunto una capacità di deterrenza. Con l’elezione di Trump ogni equilibrio in questo senso è saltato e i discorsi su un avvicinamento della pace, con o senza un livello minimo di giustizia per chi è stato colpito e ha visto distrutte le sue città, si alternano a una realtà opposta sul campo. Tutto sembra affidato al calcolo politico astratto senza il suffragio della deterrenza. Conviene a Trump forzare, negando sostegno all’Ucraina, una pace senza onore che premi l’aggressore? Conviene a Putin fermare la costosa macchina della guerra in cambio di un passaporto o comunque di un salvacondotto per la sua strategia espansionista e di ricondizionamento strategico dell’Europa ex sovietica? Alle domande politiche in libertà corrisponde un aumento esponenziale dei rischi militari implicati dai modi e della retribuzione promessa dal Cremlino.

In medio oriente le cose vanno altrimenti. Lì non c’è stata, dopo il pogrom del 7 ottobre, dopo l’atto di aggressione di Hamas, il faticoso costruirsi di una coalizione tra stati, passata dal momento unificante e combattente iniziale al suo dissolversi progressivo nell’ambito della lotta per il potere a Washington. C’è stata la mobilitazione di un esercito e una conduzione chiara e a oltranza della guerra contro i diversi fronti aperti dal terrorismo di stato dell’Iran prenucleare, dal nord di Hezbollah alla Siria, dalla Striscia alle montagne dello Yemen.

Ora si parla con ravvicinata concretezza di un accordo per il rilascio degli ostaggi e di uno scambio con i prigionieri, sembra che i rapporti di forza infine consentano di ottenere qualcosa di sensato e di compassionevole dopo immani tragedie, senza anticipare sui risultati bellici la costruzione fumosa di un futuro governo di compromesso nella Striscia. Ciò è reso possibile dall’apertura di un fronte che ha scardinato le vie di rifornimento iraniane verso la guerra di annientamento di Israele, ha colpito duramente le sue truppe islamiste sciite e sunnite da Beirut a Gaza, ha eliminato per il momento il peso della Siria assadista e putiniana e impartito una lezione di umiltà a un regime indebolito dai massicci attacchi che ha dovuto incassare anche a Teheran.

Insomma, dove le forze coalizzate in nome della libertà e dell’indipendenza hanno dovuto rinunciare a un uso dispiegato e conseguente della forza, con le limitazioni agli armamenti e al loro uso e con le convulsioni finali legate alle presidenziali americane, le cose si fanno via via più pericolose. Dove invece la forza è stata applicata con una misura schiacciante e la leadership non ha mostrato alcuna propensione a lasciarsi intimidire da una campagna internazionale di dissuasione e isolamento politico e ideologico, lì invece si aprono prospettive vere di riequilibrio e di correzione di un regime di terrore per adesso ridimensionato o ridotto di peso e di slancio strategico. Equilibrio e pace possibile, prospettive che si allontanano dal fronte ucraino e si avvicinano in medio oriente, non sono il prodotto della debolezza, ma della determinazione e della forza.

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  • Giuliano Ferrara
    Fondatore
  • “Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.

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