Il digitale trasforma, ma non muta la realtà: la rivela nella sua nuova complessità

Recuperare il senso per la differenza quale elemento nodale per misurare il sé e di conseguenza il mondo. Il postfotografico. Dal selfie alla fotogrammetria digitale (Einaudi)

Comprendere di vivere pienamente in un’epoca postfotografica significa prima di ogni altra cosa considerare il digitale nella sua totalità che prima ancora che esistere e “funzionare” quale strumento, ridefinisce totalmente i confini del reale a ogni suo utilizzo. Per quanto la definizione di un fenomeno che contenga il prefisso “post” possa apparire fragile e al tempo stesso di per sé già desueta, in quanto richiamo a uno sguardo che sembra prediligere facili scorciatoie, va detto che il ricco volume curato da Barbara Crespi e Federica Villa, Il postfotografico. Dal selfie alla fotogrammetria digitale (Einaudi), non solo giustifica il termine, ma lo rende fruibile in un testo necessario e chiarificatore anche a un pubblico non strettamente accademico. Affrontare il campo del digitale significa spesso incorrere in riduzioni e semplificazioni o peggio ancora restituire eccessivi slanci teorici solo apparentemente visionari, ma in verità più spesso vergati da un misticismo complottista capace di tramutare anche gli autori più accorti in scadenti scrittori di fantafiction. Questo non è il caso de Il postfotografico che, anzi, agisce su un terreno di analisi accurato frutto di approfonditi studi sul campo. Un lavoro collettivo che offre ai lettori anche non specialistici, finalmente in maniera chiara ed essenziale, un’idea esatta di quello che è oggi il dibattito sul digitale e sulla sua capacità trasformativa che non muta la realtà, ma anzi la rivela nella sua nuova complessità.

Una complessità, a dire il vero, più che nuova oggi in parte rivelata da possibilità di visualizzazione inedite che mixano una capacità strumentale, creativa e produttiva un tempo distinguibile e ormai non più separabile nei suoi movimenti. Un’unica azione di messa a fuoco che in qualche modo offusca il ruolo di chi produce e di chi consuma legandoli attorno alla stessa forma di significante. Il post dunque a indicare le soglie di un mondo nuovo che però pare sempre più essere soglia stessa nella sua ripetitività, segnata certamente da continue variazioni, ma atta a ribadire un cambiamento prima ancora che ad attuarlo, come indicano Maria Giulia Dondero e Barbara Grespi nel primo saggio che compone il volume: “Siamo di fronte a un’immagine prodotta con strumenti digitali che mette in scena la tecnica della produzione fotografica nel suo sgretolarsi, nel suo decomporsi in seguito all’avvento del digitale: lo statuto di impronta fotografica ne risulta annullato. In particolare, viene annullato il potere, che è proprio della fotografia analogica, di tenere insieme la realtà”. La realtà dunque esiste, ma ontologicamente fatichiamo sempre più a riconoscerla e bizzarramente a rintracciarla, tanto più basandoci su quello che è l’esperienza, la cui impronta per l’appunto, è sempre più superficiale e indistinguibile. Per evitare che la realtà diventi così uno spazio d’indagine confusa o alternativamente un luogo di annullamento del senso è necessario accoglierne totalmente la sua scomposizione. Rivedere e ridefinire e accettare infine le “nuove forme” in quanto ontologicamente esistenti. Il postfotografico aiuta a recuperare il senso per la differenza quale elemento nodale per misurare il sé e di conseguenza il mondo.

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