Il cantiere di piazza Venezia a Roma diventa un’opera d’arte di Pietro Ruffo. A Napoli le stazioni monumentali. A Milano si è perso un po’ il design
Chi pensava che fosse il solito incappucciamento alla Christo si è dovuto ricredere. I dieci enormi silos verdone che da qualche tempo costellano il defatigante cantiere della metro C di piazza Venezia a Roma saranno, anzi sono, stati adornati da un’opera di Pietro Ruffo, nome d’arte di Pietro Ruffo della Scaletta, che non è un conte della scaletta come quelli fatti frettolosamente sulla scaletta dell’aereo da Re Umberto verso l’esilio, anzi è eccelsa prosapia nobiliare che ha dato anche una regina al Belgio, e scapigliato artista “in residence” nelle migliori residenze romane. Adesso dopo la mostra al palazzo delle Esposizioni diventa anche “street artist” in questo colossale progetto di arte pubblica che ha visto rivestire i dieci silos con l’opera “Costellazioni di Roma” dove, blu su bianco, “il cielo, con le sue costellazioni, diventa una guida ispiratrice che orienta visioni e speranze, mentre le mappe rappresentano strumenti concreti di progettazione e costruzione, intrecciando passato e presente in una narrazione visiva”. Vabbè. Poi dopo Ruffo i silos ospiteranno opere di Elisabetta Benassi, Liliana Moro, Marinella Senatore, Toiletpaper e Nico Vascellari.
L’opera, sponsorizzata dai costruttori di Webuild ex Salini, è suggestiva anche se il verdone dei mammozzoni non era male, uno dei pochi manufatti peraltro a non essere ancora stati decorati dai “writers” nella capitale; però questo attivismo fa piacere, in un certo senso conferma la milanesizzazione che la capitale sta subendo. Rifacimenti, cantieri, brandizzazioni, enormi investimenti, tra Pnrr e Giubileo (l’unico evento che Milano non era ancora riuscito ad accaparrarsi, per fortuna non è a gara). Roma però anche in questo dimostra la sua unicità: se l’arte è molto usata nelle metropolitane, che si sappia è la prima volta di un cantiere che diventa esso stesso opera. Cantiere oltretutto opera d’arte-di fermata già museo, insomma foreste di simboli oltre che di ingorghi. Già l’idea della “archeostazione” è un unicum, con incentivo dell’utente ad ammirare i reperti con le stratificazioni e le datazioni originali (come già alla fermata San Giovanni) mentre aspetta il metrò tra uno sciopero e l’altro. Ma qui la vera opera è appunto il cantiere même, opera assai “specific” perché il cantiere, più che l’arte o la metropolitana stessa, è fenomeno prettamente romano. Basta pensare al film “Roma” di Fellini, che segue il delirio di una talpa sotterranea, o al facile humor locale secondo cui scavando per la metro C, tra i reperti antichissimi in cui ci si imbatte, c’è un cantiere della metro C. O ancora a quella forma di arte diffusa a Roma che è il “pollaio”, l’accrocco di nastro di plastica arancione che serve a segnalare tombini, buche, ogni sorta di disastro urbanistico, e che generalmente rimane lì per l’eternità. Collezione permanente.
Come si diceva, l’arte nella metropolitana personalmente a chi scrive desta sempre un po’ sospetto: più è faraonica la stazione e alto il concentrato di opere da ammirare e più uno teme che dovrà passare molto tempo laggiù, e dunque necessita di intrattenimento. Nei posti dove le hanno inventate, tipo Londra e Parigi, le stazioni sono piuttosto piccole ed efficienti, l’obiettivo essendo quello di far passare dei vagoni, e l’unica arte è quella kitsch involontaria che reclamizza musei, o “mall” tipo Harrods. In Italia invece forse per sopire i noti complessi si cerca sempre il grandioso ipogeo. Esempio tipico il metrò napoletano, che si bea delle più belle stazioni del mondo, affreschi e sculture e fregi e mosaici che fanno venir voglia di andar sottoterra e rimanervi per sempre, ottime per instagrammarsi, e pazienza se il vagone non arriva. Le nostre metropolitane sono le più belle del mondo perchè non vanno da nessuna parte (cit., vabbè).
Al monumentalismo partenopeo si oppone il new grigiore milanese. Una volta infatti la metropolitana lombarda era fucina dei migliori designer, nella capitalina del disegno totale – pensiamo a Franco Albini e Franca Helg per la rossa linea 1, non solo bella anche con speciali attenzioni pratiche nel più puro funzionalismo illuminista (le scritte ideate da Bob Noorda che si vedono sempre e bene, le direzioni che si capiscono e non ci si perde, eccetera). Oggi le nuove metropolitane non artistiche milanesi sono invece un po’ tutte uguali, la linea blu è scarna, cementizia e mogia dal lettering agli androni. Forse perché è del tipo senza conducente (e quindi il progettista immedesimandosi nel pilota e non nel pubblico non pone speciale attenzione nella visuale?). Però il metrò passa. Un buon compromesso è forse quella di Brescia, dove non c’è pilota, ma c’è l’arte, e scorre persino il convoglio.
Altra eccezione romana: dopo gli anni oscuri delle inefficienze ora i treni hanno ricominciato a sfilare, e pure velocissimi. E ci sono i restyiling, come la fermata della linea A di piazza di Spagna che però tra ori, specchi, fondali neri, e un’incongrua paretona di ingresso piantumata tipo bosco verticale, fa pensare d’essere arrivati in un emirato o alla villa di un narcos con moglie ecologista. Non si sa se sia parte di un generale ridisegno della intera linea A, molto anarcoide nel caso: la fermata di Vittorio Emanuele, sulla stessa tratta, forse perché non interessa le frotte di overturisti esteri ma piuttosto comunità cinesi, homeless e poi noi scrittori e sceneggiatori e giornalisti (fascia alta dei morti di fame), è stata chiusa tre mesi e riaperta identica, nemmeno ripuliti i pavimenti o cambiati i soffitti arrugginiti col filo elettrico penzolante; forse restauro iper filologico. In compenso è stata installata in gran pompa un’opera optical bianca e nera. Sdegnati soprattutto gli utenti cinesi, e non per mancanza di know how artistico: “ho studiato all’accademia di Shanghai! Ma per tre mesi ho dovuto prendere l’autobus a piazza Vittorio!”, scrive una su Instagram. Però sai che stories, sottoterra.