L’alba delle grandi opere

Dall’Autosole, in mostra alla Gnam di Roma, al ponte sullo Stretto. Aria di ricostruzione nel paese dei No (finora)

Quattrocentoquarantasette miliardi più ottocento milioni di euro, tra Pnrr e tutto il resto: l’Italia diventa un colossale cantiere. La stima viene dal servizio studi della Camera dei deputati insieme all’Autorità anticorruzione e al Cresme. Alta velocità ferroviaria, tunnel autostradali, metropolitane, ponti, viadotti, dighe, porti. Da quanto tempo non si vedeva una tale parata di grandi opere nel paese che per decenni le ha snobbate, rifiutate, disprezzate persino. Il paese dei No sta per essere rovesciato come un guanto? C’è chi evoca già la ricostruzione e il miracolo economico. Piano con le iperboli della memoria, ma spesso noi giocolieri del circo mediatico non ci rendiamo conto di quel che accade sotto i nostri occhi. E tendiamo a non ricordare che l’Italia repubblicana è stata rifatta e plasmata da alcune opere più che grandi, talvolta gigantesche. Ogni decennio ha la sua bandiera issata sopra un cantiere. Fin dalla ricostruzione, quando al nord, il più bersagliato dalla guerra, raccoglievano il ferrame dalle rovine per fabbricare i tondini, mentre si apriva la crosta terrestre per ricavare il cemento. Le università, le grandi imprese rimesse in piedi, i sindacati tornati liberi, i partiti al governo (e pur protestando anche quelli all’opposizione), preparavano la grande modernizzazione degli anni 60. Sotto lo sguardo ferrigno e il gonfio portafoglio dello zio Sam.



Pochi lo rammentano, ma è un peccato: l’Italia è stata tra i primi paesi (quarto in assoluto e secondo in Europa dopo la Gran Bretagna, dieci anni in anticipo sulla Francia) a scindere l’atomo per produrre elettricità nel 1958 con la centrale Eni di Latina. Quinto paese, ma numero due in Europa (ancora una volta dopo la Gran Bretagna) nel 1964 a mandare in orbita un satellite artificiale. In questo caso ha dato un contributo fondamentale la Nasa, mentre gli Usa erano preoccupati dalla corsa all’atomo, sia pure per usi pacifici, in un paese vinto. Grandi progetti e grandi imprese, con pubblico e privato, scienza, tecnologia e industria fianco a fianco. Ci siamo assuefatti all’Italia del piccolo è bello, alle nicchie di eccellenza, alla moda prêt-à-porter o ai bed & breakfast, varianti meno caserecce della pizza, della pasta e del mandolino. Abbiamo riempito biblioteche e colonne di giornali con le geremiadi sull’incapacità di fare sistema. Abbiamo ripescato Guicciardini e il suo “particulare”. Eppure non è stato sempre così, nemmeno nell’Italia repubblicana. Centrali nucleari e satelliti, autostrade, alta velocità ferroviaria, metropolitane a Milano e, tra mille intoppi e ritardi, anche a Roma, il Mose a Venezia. Quale sarà la grande opera bandiera del prossimo futuro, forse il ponte sullo stretto di Messina?

Ci siamo assuefatti all’Italia del piccolo è bello, ma non sempre è stato così. L’A1 nata da un virtuoso triangolo tra ingegneri, imprenditori e politici



Calma con i balzi nel domani e con gli inni alle glorie passate. Eppure, davanti all’Autostrada del Sole, celebrata a Roma con una mostra fotografica (alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, resterà aperta fino al 28 febbraio), bisogna togliersi il cappello. Fra l’altro l’A1 ha la più lunga collana di ponti (113 compresi i viadotti), a cominciare da quello sul Po, fonte di parecchi grattacapi. L’Autosole ha sessant’anni e bisogna ammettere che li dimostra, tanto è vero che anch’essa ormai è tutta un cantiere, anche ad alta tecnologia (tra droni, sensori, intelligenza artificiale, auto a guida autonoma), mentre la talpa scava il ventre delle montagne per ricongiungere Genova al cuore dell’Europa. Quel che più colpisce non è solo la rapidità con la quale fu costruito il lungo nastro d’asfalto tra Milano e Roma, ma la messa a terra (espressione quanto mai attuale in tempi di Pnrr) di un progetto nato da un triangolo virtuoso tra ingegneri visionari, imprenditori preveggenti e politici coraggiosi.

Lo disse nel suo modo ellittico Aldo Moro quando suggellò la fine dell’opera: “Un’impresa ardita e geniale”, esordì, sottolineando l’impegno coordinato delle “grandi risorse della scienza, della tecnica, del lavoro”. Nel catalogo della mostra, Lucia Borgonzoni, sottosegretaria alla Cultura, ricorda “un’impresa leggendaria che ha cambiato la vita degli italiani, rappresentando un effetto volano per l’economia”. E aggiunge quasi come lezione per il presente: “La volontà di unire persone e territori fu più forte di tutti gli ostacoli che si incontrarono durante la costruzione dell’opera”. Gli inciampi non sono mancati davvero. A cominciare da quelli culturali e ideologici, comprese le pasolinate che hanno irrorato il social-populismo. “Le autostrade del neo-capitalismo latino”, le chiamava Pier Paolo Pasolini, il quale però amava percorrerle a gran velocità con le sue Alfa Sprint.



L’Autosole, battezzata così perché aveva come meta finale ’o sole ’e Napule, era stata inserita nel piano nazionale di adeguamento delle strade, e le principali industrie italiane (Fiat, Agip, Pirelli e Italcementi) avevano preparato un primo studio di fattibilità. Ma l’impresa si rivelò ardua sul piano politico. Il Parlamento si divise per mesi: i partiti di sinistra accusarono il governo di essere al servizio della Fiat. E’ vero che Vittorio Valletta si era speso per il progetto insieme a Enrico Mattei e al presidente dell’Iri Aldo Fascetti, il quale affidò l’impresa all’ingegnere piemontese Fedele Cova, “un uomo capace di portare a termine l’impresa di costruire il più grande monumento del paese non per i morti, ma per i vivi”. La prima pietra fu posata il 19 maggio 1956 a San Donato Milanese. Pochi mesi dopo Cova si recò negli Stati Uniti per studiare le highway americane e cercare finanziatori. Durante il viaggio di ritorno in transatlantico, tracciò la bozza del progetto definitivo, che restò segreto fino alla fine per evitare pressioni e condizionamenti che, nonostante tutto, non mancarono. Il primo impedimento materiale si trovò nei pressi di Piacenza: attraversare il Po è sempre stato difficile a causa del fondo e dei flussi d’acqua irregolari.

L’ingegner Silvano Zorzi riuscì a progettare un ponte considerato a quell’epoca la più grande opera in calcestruzzo armato precompresso in Europa. L’8 dicembre 1958, poco più di due anni dopo l’avvio dei lavori, il presidente del Consiglio Amintore Fanfani tagliò il nastro del tratto Milano-Parma. E la prima auto a varcare il casello di Milano fu una Fiat Millecento. Nel 1960 era pronto anche il collegamento tra Firenze e Bologna. Due anni dopo la Napoli-Roma. Il tratto fra la capitale e Firenze è stato l’ultimo e il più conteso. L’antico campanilismo si nutriva di clientelismo. Perugia, Siena e Arezzo si contendevano il passaggio, vinse Arezzo per far contento Fanfani che, secondo la rivista Quattroruote, disegnò personalmente il tracciato con la matita rossa. L’allora presidente del Consiglio era originario di Pieve Santo Stefano, nella Valtiberina aretina; questo tratto dell’autostrada è noto come “curva Fanfani”. Siena e Perugia furono compensate con alcuni raccordi autostradali.



Con tre mesi in anticipo, il 4 ottobre 1964 al casello di Firenze la Rai inquadrava Aldo Moro che inaugurava l’ultimo tratto. Poco prima al Moma di New York si era aperta la mostra sul “coraggio degli italiani”. Il costo finale è stato calcolato in 270 miliardi di lire (3,3 miliardi di euro attuali, in base alla rivalutazione Istat), lo stato ne ha finanziato il 36 per cento. Attraverso la Società Autostrade, l’Iri acquisiva i terreni, faceva eseguire i lavori dalle imprese in appalto, gestiva i singoli tratti incassando il pedaggio e reperiva i finanziamenti emettendo obbligazioni trentennali garantite dalle infrastrutture già realizzate. L’opera ebbe anche costi altissimi in termini di vite umane: 160 operai morirono. Davanti alla chiesa eretta all’uscita di Firenze c’è ancora una lapide che li ricorda.



Molto più lungo e travagliato il percorso dell’alta velocità ferroviaria. Primo problema: quanto deve essere alta la velocità? Perché se parliamo di 200 km l’ora allora bastava il Pendolino della Fiat. Se invece andiamo oltre i 250 allora la direttissima Roma-Firenze ha segnato un primato in Europa (nel mondo lo Shinkansen tra Tokyo e Kyoto è rimasto inarrivabile). Il tratto fino a Città della Pieve è stato inaugurato nel febbraio 1977, battendo di ben quattro anni il primo spezzone della Parigi-Lione. Nel 1991 mentre la Prima Repubblica cominciava a vacillare fu costituita la società Tav spa per creare una vera rete ad alta velocità. Secondo Stefano Maggi, docente di storia delle comunicazioni e dei trasporti all’Università di Siena, l’alta velocità ha prodotto “un mutamento così repentino e profondo da non essersi mai registrato prima in un secolo e mezzo di presenza del treno nella società italiana”. Eppure hanno cercato di farla fallire. Usiamo il plurale perché non c’è stato un solo avversario a viso aperto come fu il Pci per le autostrade.

E’ vero che anche nelle ferrovie c’era lo zampino della Fiat con il Pendolino e tutta la famiglia degli Etr, ma i nemici dell’alta velocità hanno unito No Tav ideologici e No Tav giudiziari. Come dimostra la vicenda delle Frecce rosse e del suo inventore: Lorenzo Necci. Nato a Fiuggi, manager di umili origini come si dice nel dizionarietto dei luoghi comuni, repubblicano vicino a Ugo La Malfa, nel 1990 Necci viene nominato commissario straordinario delle disastrate Ferrovie dello stato e capisce che solo un accordo pubblico-privato avrebbe potuto salvare l’azienda. Nasce così una società controllata da banche e istituzioni bancarie italiane, tra le quali Mediobanca, e straniere. Un consorzio di 40 aziende di credito fornisce un finanziamento di diecimila miliardi di lire (poco meno di 5 miliardi di euro). E si parte, ma per poco. Il 15 settembre 1996 Necci viene arrestato su ordine della procura di La Spezia. L’accusa è niente meno che traffico d’armi in combutta con il finanziere Pierfrancesco Pacini Battaglia, vicino ai socialisti e finito nelle trappole di Mani pulite. Gli indizi sono nelle intercettazioni telefoniche di terze persone che facevano il nome di Necci. Secondo le indagini, Fs aveva comprato la società Contship holding, sopravvalutandola per ripartire il ricavo fra alcune persone, compreso lo stesso manager di Fs. Risultò poi che quella società non era mai stata acquistata, proprio Necci si era fermamente opposto, ma in ogni caso fu costretto a dimettersi. Alla fine la Cassazione dichiarò l’inesistenza dei presunti e gravi indizi. Dopo cinque anni, il 2 gennaio 2001, i processi si sono conclusi con la piena assoluzione.

Il percorso dell’alta velocità è stato travagliato. La persecuzione di Necci, inventore delle Frecce. I No Tav ideologici e quelli giudiziari



Qualcosa di simile è successo con il Mose, acronimo di Modulo sperimentale elettromeccanico, un sistema di dighe mobili collocato nella laguna per difendere Venezia. I lavori vengono affidati nel 2003 al Consorzio Venezia nuova tra una pioggia di polemiche, altro che acqua alta, olio bollente. I lavori cominciano, i costi raddoppiano tra gli strepiti di Cosa Nostra e di tutti gli ambientalisti. Nasce il fronte No Mose e partono le prime indagini per frode fiscale nel 2013 e per finanziamenti illeciti nel 2014. La procura di Venezia alza il polverone, non solo arresto per il sindaco Giorgio Orsoni, ma per Giancarlo Galan ex presidente della regione. C’è molto centrosinistra, ma si tratta di un vasto arco trasversale. Il consorzio viene messo in amministrazione straordinaria. Sono gli ultimi fuochi di Carlo Nordio il grande inquisitore della Tangentopoli veneta, l’antagonista delle cooperative rosse (278 persone messe sott’accusa). La polvere si posa, come era accaduto per le coop (Nordio era arrivato ad Achille Occhetto e Massimo D’Alema i quali “non potevano non sapere”). Galan patteggia, Orsoni alla fine viene assolto. I 35 arrestati tornano liberi nel 2017 quando Nordio lascia la magistratura per raggiunti limiti di età e passa alla politica (prima il Pli nel quale aveva già militato dal 1967 al 1977, poi Fratelli d’Italia). Le dighe per fortuna funzionano. Il Mose come la Tav e una miriade di altre vicende politico-legali sono gli spettri che aleggiano anche attorno al ponte sullo stretto di Messina.

Tutti gli arresti intorno al Mose. Sono gli ultimi fuochi di Carlo Nordio, il grande inquisitore della Tangentopoli veneta



Collegare la Trinacria allo stivale è un sogno che si trascina da duemila anni. I romani avevano pensato di unire fisicamente la Calabria e la Sicilia creando un ponte di barche per far passare le truppe e gli elefanti catturati dai cartaginesi, come narra Plinio il Vecchio. Anche Ferdinando II di Borbone nel 1840 immaginò di realizzare un ponte, ma non ne fece nulla. Con l’unità d’Italia arrivò il primo progetto nel 1866 su iniziativa del ministro dei lavori pubblici il cremonese conte Stefano Jacini. Nel 1870 si pensò a un collegamento sottomarino. Proseguirono studi e improvvisazioni prima e dopo la Grande Guerra. S’immaginò persino la posa di un enorme tubo d’acciaio sottomarino per il transito ferroviario e veicolare. Dopo un periodo di letargo, i progetti si sono intensificati e nel 1981 viene costituita la società Ponte sullo Stretto di Messina Spa. Nel 1985 Bettino Craxi proclama che si farà. Vent’anni dopo tocca a Silvio Berlusconi. Passa un altro ventennio di tira e molla, 130 milioni di euro sprecati secondo la Corte dei conti in un balletto tra scettici (i più), avversari (molti) e pochi entusiasti. Oggi costerebbe 13,5 miliardi di euro escluse le opere accessorie su entrambe le sponde, tre volte e mezzo l’Autosole, intanto le spese lievitano di anno in anno. Nessuno è in grado di sapere quando l’investimento darà un ritorno allo stato e all’impresa.

Con l’unità d’Italia arrivò il primo progetto del ponte sullo Stretto, nel 1866 su iniziativa del ministro dei lavori pubblici, conte Stefano Jacini



Cosa sarebbe l’Italia senza i ponti che l’hanno resa grande, dal “ponte del diavolo” a Vulci, di origine etrusca, a quelli percorsi dai mercanti, dai legionari e dai portalettere a cavallo? A Roma il pontefice, colui che curava il ponte sul Tevere, diventa sommo magistrato con la repubblica, fino ad assumere un connotato religioso, come punto di congiunzione tra le civiltà, tra immanente e trascendente, tra la terra e il cielo. E che cosa sarebbe l’Italia senza la Sicilia, là dove “è la chiave di ogni cosa”, come ha scritto Goethe? Se si fa, se funziona, se il ponte produce reddito invece che sprecare denaro pubblico, ebbene allora dovremo dare ragione all’Olimpico poeta con due secoli di ritardo.

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