Quando la condanna non basta più. Il ritorno del supplizio

L’ostensione di corpo e anima del condannato e le nostre emozioni. I casi di Filippo Turetta e Leonardo Caffo, letti dal filosofo Michel Foucault e il successo mediatico di Luigi Mangione: 300 mila follower in poche ore sul suo debilitato profilo Instagram

“Damiens era stato condannato a ‘fare confessione pubblica davanti alla porta principale della Chiesa di Parigi’, dove doveva essere ‘condotto e posto dentro una carretta a due ruote, nudo, in camicia, tenendo una torcia di cera ardente del peso di due libbre’; poi ‘nella detta carretta, alla piazza di Grêve, e su un patibolo che ivi sarà innalzato, tanagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto parricidio bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato piombo fuso, olio bollente, pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo corpo tirato e smembrato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento’”. La cronaca del supplizio di Robert François Damiens, condannato per tentato regicidio e ultimo a essere giustiziato, il 2 marzo 1757, tramite squartamento è riportata all’inizio di Sorvegliare e punire per illustrare non soltanto cosa fosse un supplizio, ma “lo spettacolo del supplizio” nell’Europa di soltanto due o tre secoli fa.

Qualche decennio fa il celebre saggio di Michel Foucault sulla nascita della prigione, con il suo incipit granguignolesco, era molto noto. Andava di moda. Oggi molto meno, e anzi viene il timore che risvegliare il ricordo dei supplizi antichi possa far piacere o dare idee a personaggi come Del Mastro delle Vedove, il sottosegretario che prova intima gioia sognando ragazzini che da grandi vogliono diventare secondini. Ma limitarsi a puntare il dito su Del Mastro Delle Vedove, sulla sua maggioranza ad alto grado di sadismo penitenziariosarebbe assai riduttivo. La cronaca e i fiumi di parole che la enfatizzano dimostrano che le nostre società europee stanno tornando a considerare la giustizia e l’erogazione della pena allo stesso modo dell’Ancien régime.

Come ai tempi evocarti da Foucault, non si esige solo la condanna, ma anche “lo spettacolo del supplizio”. L’ostensione del dolore del condannato, possibilmente corredato dalla sua piena confessione pubblica. La “lugubre festa punitiva”, che nell’epoca moderna era “entrata nell’ombra” (persino in America le esecuzioni si guardano dallo spioncino come in un peep-show), sta tornando attuale. Senza lo strazio dei corpi, certo, ma è il meccanismo che va osservato. Un paio di casi di cronaca (più uno che useremo a controprova) illuminano questo ritorno. Ce ne sarebbero molti, in realtà: ogni volta che un organo di stampa, i social o anche semplicemente i parenti della vittima pretendono un surplus di pena, una esemplarità di castigo che vada oltre la sentenza. Un fenomeno che conosciamo da tempo come “populismo penale” ma negli ultimi anni, anche sulla scorta di delitti gravi o percepiti come tali (la giustizia percepita è anche peggio della temperatura percepita), il salto di qualità si è fatto evidente. Filippo Turetta è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio con premeditazione di Giulia Cecchettin. Ma già nei mesi precedenti le sue fotografie, le sue dichiarazioni ai magistrati, gli scampoli di chat riportati infinite volte sono state il preambolo di un giudizio-supplizio spettacolarizzato. Di cui le intercettazioni ignobilmente pubblicate di un colloquio in carcere con i genitori sono state il culmine barbarico. Fino alle mille descrizioni stereotipate di lui “immobile e a testa bassa”, lui “senza espressione” alla sentenza. Lo show di lui che chiede scusa e si dissocia in modo disarticolato da sé stesso. Si dirà che tutto questo serviva perché “la violenza di genere va combattuta con la prevenzione” (il padre di Giulia Cecchettin), ma è vero solo in parte: basterebbe fare il conto anche solo approssimativo di quanti “spettacoli di supplizio” siano apparecchiati per molto meno.

C’è poi il fatto che i giudici hanno escluso le aggravanti della crudeltà e dello stalking, che tecnicamente di fronte a un ergastolo comminato non hanno valore, ma evidentemente erano richieste come accessori simbolici della pena (un tempo si usavano strumenti tipo l’esposizione al palo). “Resta il fatto che per la maggior parte di noi questa sentenza resta incomprensibile”, dice in un video una giornalista di Fanpage, lo prendiamo a esempio di milioni di commenti e pensieri identici. A parte che “la maggior parte di noi” non è un criterio giudiziario particolarmente affidabile (basterebbe l’ultimo capolavoro di Clint Eastwood, Giurato numero 2, a insinuare il dubbio), cosa può produrre l’aggiunta inefficace di una aggravante, se non una sorta di soddisfazione emotiva?

C’è un altro elemento simbolico cruciale: la confessione. A Turetta – e a chiunque altro si sia macchiato di un delitto che ha offeso qualcuno, fosse pure la pirateria stradale – non era chiesto solo di dire il vero, ma di fare ammenda. Non che, in questo o altri casi, la confessione serva nella procedura, ma ascoltarla dalla bocca dell’imputato produce, evidentemente, una sorta di rilascio di endorfine sociali. Torniamo a Foucault. Il secondo aspetto da lui evidenziato nelle pratiche della giustizia antica è appunto il ruolo della confessione pubblica. “In Francia, l’onorevole ammenda – l’infamante confessione pubblica – era stata abolita una prima volta nel 1791”. Spiega Foucault che già a quel tempo l’istruttoria penale era una macchina ben oliata, ma proprio per questo aveva bisogno del supporto della confessione: “Prima di tutto perché costituisce una prova così forte che non è più necessario aggiungerne”. Inoltre, ed è l’elemento più sottile: perché “bisogna, se è possibile, che essi si giudichino e si condannino da loro stessi”. Si comincia a preferire che “il castigo colpisca l’anima, non il corpo”. Tutto questo, lo sappiamo per esperienza nelle nostre società tendenzialmente liberali, era evaporato da tempo. Si era trasformato in altre procedure, come quelle della riabilitazione. Duecento anni dopo Beccaria, nella società dell’algoritmo sociale, quelle voglie tornano a scorrere. Un libello anonimo inglese del 1701 si intitolava Hanging not punishement enough e fa stranamente rima, almeno a livello di psicologia sociale, con il “dare l’ergastolo a chi uccide le donne è un segno importante” strillato da un palco da Laura Pausini. Si ricomincia a pensare che vada punita l’anima (la psiche, la cultura) e non solo il corpo.

Il supplizio come “arte quantitativa della sofferenza” è oggi una sorta di “affirmative action” sociale. Un giudizio collettivo che incanala e si somma al giudizio puramente di tribunale. Lo vediamo tornare attuale: quante centinaia di casi di cronaca vengono corroborati dalla domanda mediatica “ma non si è pentito?”, dal giudizio di condanna “non ha confessato”. Quante requisitorie di gip si appoggiano malamente a frasi come “non ha dimostrato di capire la gravità”. Persino per il banalissimo caso Toti. E qui, dai “gradienti di forza” e dal tintinnar di manette dei Del Mastro si attraversa però un confine sottile e si approda a un territorio nuovo e decisivo: quello in cui nasce e prospera una pretesa di giustizia che è prima di tutto etica, che richiede la sua propria ostensione del reprobo, non manganellato (roba di destra), ma nel supplizio morale.

Il caso del filosofo Leonardo Caffo ha qualcosa di significativo. Condannato a quattro anni per maltrattamenti alla ex compagna, e pur dichiarandosi “penalmente innocente”, ha detto: “Va bene colpire uno per educarne mille, io sono stato colpito, speriamo che educhino gli altri mille”. Siamo parecchio più in là del “chiedere scusa” e “del fare ammenda”. Qui siamo a un inaudito, o forse prevedibile, ritorno al concetto del capro espiatorio caro a René Girard, dell’innocente su cui si addossano, ed è disposto ad addossarsi, le colpe collettive. Siamo a una nuova versione del “bisogna, se è possibile, che essi si giudichino e si condannino da loro stessi”. Ma nella chiave della religione sociale oggi dominante – che non è più quella per cui Damiens chiedeva ai suoi boia di non bestemmiare – che prevede un diverso corpo del condannato: in questo, la figura diafana d’intellettuale di Caffo appare perfetta.

Dicevamo della controprova. Il caso del successo mediatico e social di Luigi Mangione, nient’altro che un brutale assassino con stupidi motivi: 300 mila follower in poche ore sul suo disabitato profilo Instagram, 300 mila su X. E il consenso popolare, il suo corpo percepito addirittura come “sexy” (lo notava ieri Giuliano Ferrara). Il colpevole trasformato in eroe ci parla della stessa onda di violenza emotiva trasformata in spettacolo. In un librino dedicato alle Vite degli uomini infami, Foucault spiegava che esiste anche “una falsa infamia, quella di cui beneficiano uomini di scandalo e spavento come sono stati Gilles de Rais… Apparentemente infami, a causa dei ricordi abominevoli che hanno lasciato, delle malefatte loro attribuite, questi sono di fatto gli uomini della leggenda gloriosa, anche se le ragioni di questa fama sono l’opposto di quelle che fanno o dovrebbero fare la grandezza degli uomini”. E’ un po’ spaventoso dirlo oggi, pensando a Mangione e a tanti altri vendicatori violenti che si aggirano nelle nostre società. Ma è una parte decisiva, per quanto ribaltata, di un pauroso ritorno: quello di uno “spettacolo del supplizio” che va oltre la stessa giustizia e che così tante e diverse emotività è in grado di attrarre.

  • Maurizio Crippa
  • “Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini”

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