Dalle ossidazioni spontanee alle riflessioni sullo spazio pubblico: l’arte di Paola Di Bello racconta l’uomo attraverso lo sguardo fotografico, intrecciando linguaggi e sensibilità contemporanee. Tra postmedialità e relazioni umane, una riflessione sul concetto di tempo e identità
Nome: Paola Di Bello
Luogo e anno di nascita: nata a Napoli, milanese di adozione dal 1973
Galleria di riferimento e contatti social: paola_di_bello
L’intervista
Intervista realizzata in collaborazione con Anna Setola
Quale ruolo attribuisci al caso e all’imprevisto nelle tue opere fotografiche?
Tutto è cominciato nel 1983, ovviamente per caso. Avevo dimenticato di fissare una fotografia in Polaroid ed ero partita per le vacanze; dopo tre mesi, al mio ritorno – sorpresa! – la Polaroid era dorata e specchiante. L’effetto mi piacque talmente che decisi di farci un lavoro, anzi, vari esperimenti e lavori che poi definii Ossidazioni.
In che modo hai iniziato a fare l’artista?
Presto, ma non lo sapevo. Il mio rapporto con l’arte, quand’ero piccola, era limitato a ciò che vedevo intorno a me. La mia coscienza artistica è arrivata molto dopo; in quegli anni ho respirato arte in modo inconsapevole. Ho imparato la camera oscura l’ultimo anno vissuto a Napoli, non da mio padre ma alla scuola media. Ho continuato poi a coltivare la mia passione dopo il trasferimento a Milano nella camera oscura di mio padre. Era la mia quotidianità. Non volevo fare arte, non era quella la mia intenzione allora. Quello che ho vissuto l’ho introiettato, non l’ho cercato. Ho cominciato a fare l’artista dopo l’incontro con Mario Gorni: gli ho mostrato le mie polaroid e le Lucciole. La mia prima mostra è stata al Care of nel 1990, ed è stato in quel momento che ho capito che ciò che stavo facendo poteva essere considerato arte.
Quali sono i tuoi riferimenti visivi e teorici?
I primi che mi vengono in mente sono: Georges Perec, Ugo Mulas, Franco Vaccari, Luigi Ghirri fino a Viaggio in Italia, Goethe, Novalis, i Miti e gli antichi greci, Jean-Pierre Vernant, Giorgio Colli, Il ramo d’oro, le religioni e la mitologia, Luigi Cavalli-Sforza, Jared Diamond, Yuval Noah Harari e chissà quanti altri. E vuoi sapere quelli musicali con cui sono cresciuta? Jesus Christ Superstar, American Graffiti e The Rocky Horror Picture Show.
A che cosa stai lavorando?
Adesso finalmente a niente, se non a promuovere il lavoro appena concluso allo CSAC di Parma con Valerio Rocco Orlando, in seguito alla vittoria del bando PAC-Piano Arte Contemporanea della DGCC. Questo progetto, Community Specific Archive, mi ha impegnata per quasi un anno: il mio desiderio iniziale era quello di mettere gli studenti dell’Università di Parma a contatto con delle immagini da usare come innesco per un discorso sulle loro ansie, sui loro pensieri, sui loro desideri. Ciò che mi interessava era provare a creare un dialogo con loro che non passasse attraverso le parole ma attraverso le immagini. Perciò ho lavorato in archivio scegliendo alcune fotografie contenute allo CSAC che ho rifotografato isolando solo dei dettagli in modo che i pezzi risultanti fossero completamente decontestualizzati. In ogni scatto non si vedeva più il come, il dove, il quando, il perché – domande tipiche della fotografia documentaristica; volevo che le immagini diventassero così aperte che si creasse da sé quello spazio necessario per un dialogo esclusivamente visivo tra me e gli studenti, tra l’archivio istituzionale e il loro archivio privato.
Cosa significa per te “fotografia postmediale” e come questo concetto si riflette nel tuo lavoro?
Non ho mai pensato alla fotografia ma all’arte. Il concetto di postmedialità è diventato così ampio che è difficile orientarsi. In una delle sue accezioni, però, potrei dire che il mio lavoro fin dall’inizio è stato postmediale, dato che, fin dai tempi delle piccole polaroid, ho sempre costruito le mie mostre attraverso installazioni spaziali, oppure ho realizzato progetti site and community specific. Invece, se lo riferiamo per esempio, all’uso dell’intelligenza artificiale o dell’immagine di sintesi, non posso negare che non ci stia riflettendo. Penso che ogni mezzo sia valido al fine di costruire Arte.
Ora e Qui è postmediale?
Ecco, sì, per esempio! Lo spazio circostante al Museo del Novecento, la piazza del Duomo, entra a far parte dell’istallazione sulle vetrate, e anche il grande neon di Fontana dialoga con l’idea di tempo e spazio del titolo.
Che cos’è per te lo studio d’artista?
Lo spazio nel quale si va per lavorare. Ma è anche il magazzino dove sono conservate le opere; il database del computer; la veduta dalla finestra che ti dà luce; le chiacchierate con gli amici e gli artisti; le mostre che si vanno a vedere; i mille sforzi che si fanno per realizzare idee e opere.
In che modo la tua ricerca artistica si confronta con il tema della relazione tra l’individuo e lo spazio pubblico?
Ho sempre pensato che l’approccio relazionale dovrebbe essere assunto da tutti quelli che hanno a che fare con un pubblico e che quindi ogni arte pubblica debba necessariamente essere relazionale, cioè debba tener conto di questo pubblico. Nel mio caso, per esempio, a cominciare da La disparition, passando per Fuoricampo, Video-Rom, A portrait of…, rimane centrale lo slogan di gioventù “il privato è politico” in cui il privato è la relazione e il politico è il pubblico, il bene comune. A mio avviso, nel momento in cui un artista si occupa di arte pubblica – e forse tutta l’arte è pubblica – allora è necessario anche l’impegno civile e sociale.
Qual è la funzione dell’arte oggi?
Bella domanda. Potrei rispondere con mille citazioni, per esempio che “l’arte non dà risposte, ma pone domande”. A me basta che la sua funzione sia quella di stimolarci con intense sensazioni e pensieri.
Com’è organizzata la tua giornata?
Purtroppo male. Un vecchio proverbio dice: “non è che la vita non sia abbastanza lunga, è che non è abbastanza larga”. Ecco, così è organizzata la mia giornata.
Le opere
Paola Di Bello, Ossidazioni, 1984 (courtesy l’artista)
«Creare vuol dire fare esperimenti con il caso».
Novalis
Paola Di Bello, Lucciole, 1988 (courtesy l’artista)
«Si noti il curioso effetto psicologico: la maggior parte di noi tenderebbe a vedere un ordine nei filamenti e raggruppamenti delle stelle, mentre intenderebbe le figure delle lucciole, con la loro mancanza di disegno apparente, come casuali. In realtà è vero l’inverso e sono in errore le nostre concezioni abituali».
Stephen Jay Gould, Risplendi grande lucciola, 1991
Paola Di Bello, La Conoscenza di Sé, 1990 (courtesy l’artista)
Socrate: «Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, perché è quasi un’immagine di colui che la guarda?
Alcibiade: «È vero».
Platone, Alcibiade primo, 132e-133b.
Paola Di Bello, La disparition, 1994 (courtesy l’artista)
«Quello che succede ogni giorno e che si ripete ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo, in che modo descriverlo?»
Georges Perec, L’infra-ordinario, 1989
Paola Di Bello, Concrete Island, 1996 (courtesy l’artista)
«Dove vanno a finire gli oggetti che non hanno più utilità?
Si potrebbe rispondere che normalmente vengono buttati nella pattumiera
ma questa risposta sarebbe insufficiente perché la domanda è metafisica. Bergson poneva questa stessa domanda e rispondeva metafisicamente: quanto ha smesso di essere utile comincia ad essere, semplicemente».
Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, 1983
Paola Di Bello, Dromografia, 1997 (courtesy l’artista)
«La percezione del paesaggio ‘in velocità’ spaziale e temporale».
Paul Virilio, L’orizzonte negativo. Saggio di dromoscopia, 1986
Paola Di Bello, Fuoricampo, 1997 (courtesy l’artista)
«La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata, è per me importante quanto il rappresentato ed è grazie a questa cancellazione che l’immagine assume senso diventando misurabile. Contemporaneamente l’immagine continua nel visibile della cancellazione, e ci invita a vedere il resto del reale non rappresentato».
Luigi Ghirri, 1970
Paola Di Bello, Rischiano pene molto severe, 1998 (courtesy l’artista)
«Si ricorda che, in base a precise disposizioni di legge, è vietato chiedere l’elemosina sui treni e nelle stazioni della metropolitana. Chi non rispetta queste disposizioni, rischia pene molto severe!».
Annuncio vocale dell’Azienda Trasporti Milanese, 1998
Paola Di Bello, Ora e Qui, 2016 (courtesy l’artista)
«L’occasione ha sempre rappresentato per me il radicamento nella realtà, era l’elemento che mi dava la sensazione che il mio “privato” coincidesse col pubblico. Questa polarità è stata sempre presente nel mio lavoro».
Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, 1979
Paola Di Bello, Community Specific Archive, 2024 (courtesy l’artista)
«Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua totalità […]. Ciò che veramente importa non è tanto l’attimo privilegiato, quanto individuare una propria realtà; dopo di che tutti gli attimi più o meno si equivalgono. Circoscritto il proprio territorio, ancora una volta potremo assistere al miracolo delle “immagini che creano se stesse”, perché a quel punto il fotografo, deve trasformarsi in operatore […]».
Ugo Mulas, Le verifiche, 1971-1972