Il gran gioco in corso in medio oriente, e appena sfociato nella sorpresa siriana, somiglia un po’ a quello che sconvolse l’Europa centrale per quattro secoli, dal 1400 agli inizi del 1800. Non solo guerra all’occidente cristiano: in ballo c’erano questioni di famiglia
Il gran gioco di risiko in corso in medio oriente, e appena sfociato nella sorpresa siriana, somiglia un po’ a quello che sconvolse l’Europa centrale per quattro secoli, dal 1400 agli inizi del 1800. Ci hanno martellato che si trattò di scontro tra l’Impero turco e la cristianità occidentale. In realtà, come ormai tendono a riconoscere gli storici, fu qualcosa di molto più complicato. Si innestava in intricatissime guerre di successione dinastica e poi in guerre intestine di religione in Europa. Agivano meccanismi simili nella controparte. La potenza ottomana si era espansa sin dall’inizio nel quadro di guerre fra bande, fra tribù e all’interno della stessa tribù, ammazzamenti tra fratelli rivali e le rispettive cordate. Con una girandola continua di alleanze, voltafaccia, tradimenti.
Semplificare realtà complesse è una gran comodità. Può servire a schierarsi per partito preso. Ma la logica da tifo sportivo al bar non aiuta a comprendere cosa stia succedendo. Quello non fu uno “scontro di civiltà”, come siamo portati a semplificare. Non fu una sfida mortale tra islam e cristianesimo. Tanto meno uno scontro tra libertà e tirannide, tra assolutismi e democrazie. Le grandi potenze occidentali – Francia, Spagna e Asburgo, Venezia, il Papa – continuavano a combattersi tra di loro, a formare e disfare leghe, alleanze al servizio della propria egemonia o sopravvivenza in Europa. E alternativamente si schieravano con o contro il sultano turco, secondo la propria convenienza, i propri interessi vitali del momento.
Allora come oggi c’erano in ballo interessi, obiettivi di potere di singole figure. O singole famiglie. Molto più di quanto pesassero le loro affiliazioni religiose o propensioni ideologiche. Erano anche guerre tra famiglie. Anzi in famiglia. O contro una famiglia che aveva accentrato potere. E allo stesso tempo accentrato odi tremendi, nel tentativo di aggrapparsi al potere. Era successo a Saddam Hussein, capo del clan di Tikrit. E’ risuccesso agli Assad, clan minoritario di alawiti (branca minoritaria di islam sciita, non più del 10 per cento della popolazione della Siria, in gran maggioranza sunnita). Assad era, come è noto, sostenuto da Iran e da Hezbollah, sciiti (oltre che dalla Russia di Putin, per ragioni con cui l’affiliazione religiosa non c’entra nulla). Esultano la Turchia, la Lega araba e i Sauditi. Piange Teheran, con l’ayatollah Khamenei, per il quale sarebbe “indisputabile” lo zampino dell’America e dell’“Entità sionista” (è tabù anche solo nominare Israele).
Chi ha visto arrivare Hayat Tahrir al-Sham, l’Organizzazione per la liberazione del Levante? Forse neanche Israele, checché ne dica Khamenei
Di indisputabile c’è in realtà poco. A quanto pare quasi nessuno aveva visto arrivare Hayat Tahrir al-Sham, ovvero l’Organizzazione per la liberazione del Levante, sino all’altro giorno solo una di una miriade di sigle, e un dissolvimento così fulmineo di un regime di famiglia durato 53 anni. Non l’Iran, non il Cremlino, non gli altri stati arabi, i quali fino all’ultimo hanno puntellato il giovane Assad, nella convinzione che la permanenza al potere del tiranno fosse il male minore. Non l’intelligence Usa, e nemmeno quella di Israele, checché ne dica Khamenei. Forse neanche Erdogan si attendeva che il suo investimento in soldi e armi nella Siria che un tempo era provincia dell’impero ottomano fosse tanto redditizio.
Un interrogativo assilla in questi giorni l’occidente: Abu Muhammad al Julani. Chi è costui, chi lo finanzia e l’ha armato, che cosa vuol fare, quanto ci si può fidare delle rassicurazioni sue, della formazione di cui sembra il capo indiscusso, del primo ministro da lui insediato?
Misteri cinquecenteschi su Ludovico Gritti. Ci si continua a chiedere se fosse un agente del sultano, del re d’Ungheria, o di Venezia
Sono le stesse domande che gli storici recentemente si sono posti su un personaggio finora ignorato del 1500, Ludovico Gritti. Ci si continua a chiedere se fosse un agente del sultano, del re d’Ungheria, o della Repubblica di Venezia. Era, si dice, figlio illegittimo dell’assai più noto Andrea Gritti, poi doge di Venezia, e di una sua concubina greca. Gli era impossibile fare carriera a Venezia (la taccia di bastardo gli precludeva sia le nomine burocratiche che quelle militari). Perciò si era stabilmente trasferito a Costantinopoli. Dove era conosciuto con nome di beyoglu, figlio del bey, cioè del gran signore (il doge veneziano nel caso specifico). E’ tuttora il nome del quartiere di Pera, dove risiedevano i commerci di genovesi e veneziani.
Ludovico Gritti, detto Alvise, si era arricchito facendo il mercante, come aveva fatto suo padre prima di diventare doge. Era un genio negli affari. Era favorito dall’amicizia col gran visir e poi dalla fiducia dello stesso sultano. Divenne una specie di Elon Musk della Sublime Porta. Gli erano stati affidati importanti incarichi militari, diplomatici e politici. Dopo la vittoria campale dell’esercito ottomano a Mohács nel 1526, l’Ungheria era diventata praticamente un protettorato turco. Gritti fu mandato a rappresentare gli interessi del sultano a Budapest. Divenne sommo tesoriere, governatore, praticamente re di fatto dell’Ungheria. Aveva anche esperienza militare. Aveva difeso Buda. Non dai turchi ma da un esercito asburgico. Prima che Solimano il magnifico marciasse contro Vienna, nel 1529, alla testa di un esercito di 200-300 mila uomini – dimensioni mostruose per quei tempi – il Gritti aveva svolto un’intensa attività diplomatica, presumibilmente sempre per conto del sultano. Aveva avvertito Venezia dell’invasione, ottenendone la garanzia che, pur non prestando le proprie galee alla flotta turca, Venezia sarebbe rimasta neutrale, non avrebbe fatto lega con altri potentati cristiani. Aveva avvertito anche, tramite il cardinale di Aquileia, il Papa a Roma. Agli interlocutori italiani raccontava di inquietanti piani di invasione da parte della Francia. Per interposti agenti, tramite un corpo di mercenari svizzeri. All’inizio non gli avevano prestato fede. Il cardinale Grimani considerava Gritti un provocatore, anzi addirittura un agente del re di Francia.
Iniziata la marcia di Solimano, in occidente fu il panico. L’Europa era spaccata tra chi voleva difendere Vienna e chi invece voleva accomodare il Gran Turco e lasciare al proprio destino austriaci e tedeschi. Il rappresentante dell’imperatore Ferdinando d’Asburgo, ricordava che per fermare l’avanzata turca sarebbero bastate soltanto tre cose: “Denaro, denaro, e ancora denaro”. Sembra di sentire Trump che parla di Nato. Ma il denaro era proprio quello che Francia, Inghilterra e stati italiani, già in difficoltà finanziarie per conto loro, non erano disposti a cacciare. Tanto più che Solimano gli stava facendo un favore contro i loro nemici europei: la Spagna e gli Asburgo. Si ventilò persino un’alleanza tra la Francia, l’Inghilterra, la Danimarca, i principi protestanti di Prussia, Baviera e Sassonia contro gli imperiali cattolici. Fu la volta in cui i turchi si erano spinti più in profondità nel cuore dell’Europa. Ma gli andò male. Solimano fu costretto a ritirare dall’assedio di Vienna l’esercito decimato da gelo ed epidemie.
Nel gran caos Gritti provò a impadronirsi anche di diritto della corona d’Ungheria. Anche a lui andò male. Si era già attirato l’odio dei nobili ungheresi, i quali lo consideravano, e non a torto, un burattino del sultano turco. Stava attraversando con un suo esercito la Transilvania, alla volta di Buda, quando fu sorpreso da una rivolta aizzata dal vescovo di Varat. Il popolo era corso alle armi non solo, e forse non tanto perché Gritti era accusato di voler usurpare il trono d’Ungheria, e derubarne le ricchezze che già stava prosciugando grazie a importanti concessioni minerarie. La gente era esasperata dal susseguirsi di anni di guerre e carestia, dall’aumento dei prezzi e dalle tasse. Come non bastasse, continuavano a infierire peste e altre epidemie. Quando il vescovo scomodo fu assassinato dagli uomini di Gritti, la rivolta esplose incontenibile. Gritti in fuga, sofferente di febbre acuta, fu catturato, torturato in modo atroce e decapitato.
Tra gli storici che si sono occupati recentemente di Gritti e altri “potenti obliati” del passato ci sono Gizella Nemeth Papo e Adriano Papo, del triestino Centro studi Adria-Danubia. Il loro I turchi nell’Europa centrale. Da Gallipoli a Passarowitz (secc. XIV-XVIII), pubblicato da Carocci nella sua dotta collana di Studi storici, è uno studio molto specialistico. In cui il lettore non specialista rischia di perdersi. La vicenda del Gritti “dimenticato” è solo uno dei molti spunti. Il libro offre, sia pure un po’ alla rinfusa, una vera e propria miniera di analogie con le atrocità, gli intrighi internazionali, le implicazioni, le imprevedibilità di quel che sta succedendo in medio oriente.
Ci sono un’infinità di protagonisti. Ciascuno dei quali tira acqua al proprio mulino. Così come infinite sono le giravolte delle vicende militari, delle alleanze, dei complotti. Ogni principe, ogni vassallo, ogni città, ogni fazione, ci mette del suo. Secolo dopo secolo i sultani ottomani finiscono col fare la guerra e ammazzare rivali nella propria stessa famiglia. Si trovano a fronteggiare rivolte della loro stessa etnia e religione. Quel che comincia in una maniera finisce spesso nella maniera opposta, o comunque inaspettata. Giorgio Castriota, figlio del signore di alcuni villaggi albanesi, era stato mandato come ostaggio alla corte del sultano Murad II. I turchi gli avevano dato il nome benaugurante di Iskander (Alessandro, come Alessandro magno). Gli avevano affidato il comando di una delle armate del sultano. Avrebbe dovuto combattere serbi, ungheresi e veneziani. Invece finì col combattere contro gli ottomani. L’Albania lo venera come eroe della propria indipendenza col nome affibbiatogli dai turchi: Scanderbeg (Iskander bey).
Altra mitica rivolta contro il sultano ottomano quella dei contadini dell’Anatolia, a cui l’erudito islamico Bedreddin predica una specie di comunismo, e una sintesi delle religioni monoteiste. Lo conobbi che ero ancora ragazzo, dai versi di un poema a lui dedicato da Nazim Hikmet, il “comunista innamorato”, turco come lo ero io allora. Anche in questo caso, islam e cristianità non c’entrano nulla. La rivolta dello sceicco Bedreddin è speculare a quella, giusto un secolo dopo, dei contadini tedeschi guidati dall’anche lui eretico e “comunista” Thomas Müntzer.
I sultani turchi se l’erano dovuta vedere, sempre più di frequente, con le rivolte delle loro truppe più scelte e temibili, i giannizzeri
Il potere nasce sempre, allora come oggi, dalla spada, o dalla canna del fucile come diceva Mao. Ma non è affatto scontato dove finisca puntato il fucile. I sultani turchi se l’erano dovuta vedere, sempre più di frequente, con le rivolte delle loro truppe più scelte e temibili, i giannizzeri. Erano un corpo speciale, di ragazzi cristiani rapiti e convertiti a forza all’islam. Ma le loro ribellioni non avevano niente a che vedere con la religione. Semmai con gli intrighi di palazzo, la difesa dei privilegi di corpo, la paga. Simboli delle rivolte dei giannizzeri furono i grandi calderoni di bronzo usati per cuocere il loro pilaf. Venivano rovesciati e suonati a mo’ di gong nei cortei per le vie di Costantinopoli. Dal tuo esercito ti guardi Iddio, che da quello dei nemici mi guardo io.
Comunque la si guardi, a scatenare il conflitto non è l’odio tra islam e cristianità. C’è sì la rivalità tra gli imperi. Che però poggia sempre su fattori che hanno a che fare col commercio, prima che sulle etnie e sulla religione. L’Europa del Cinquecento e del Seicento era ossessionata dalla minaccia musulmana. Ma più ancora dalla minaccia di potenze correligionarie. Nemici davvero irriducibili sono la Francia di Francesco I e la Spagna di Carlo V. Poi interviene l’Inghilterra di Elisabetta I, che ce l’ha con gli spagnoli, non con i turchi. Per Shakespeare il concentrato assoluto di malvagità è lo spagnolo Iago. Ci si ammazzava tra cattolici e protestanti, molto più, e più crudelmente, di quanto ci si ammazzasse tra turchi e cristiani.
Idem tra i musulmani. Arriva sino ai nostri giorni la rivalità secolare tra l’Impero turco ottomano, sunnita, e l’Impero persiano, sciita, malgrado la comune fede islamica. Nel momento di massima tensione tra Iran e Israele, la Turchia di Erdogan e l’Iran avevano tenuto a far sapere che, pur concordando nel deprecare la guerra di Netanyahu a Gaza, Iran e Turchia non intendevano concordare stabilmente su null’altro. Detto fatto. Il colpo più duro all’Iran, dall’inizio del conflitto, è stata la Turchia a infliggerlo.
Le guerre civili, le guerre tra famiglie di vicini, o, peggio ancora, le guerre in famiglia sono sempre state, da che mondo è mondo, le più crudeli. In qualche modo è una guerra civile anche il conflitto tra israeliani e palestinesi. “Cugini” è il modo in cui ci si riferiva fino a non molto tempo fa in Israele ai “vicini” arabi. Che prevalga invece la voglia di sterminarsi a vicenda, anziché convivere, è uno sviluppo relativamente recente. Checché se ne dica, da una parte e dell’altra, nel tentativo di giustificare l’inimicizia mortale, di dargli sembianze di odio atavico, di tirare in ballo addirittura i testi sacri delle rispettive religioni.
Philip Carl Salzman ha teorizzato che tutto nella cultura mediorientale sarebbe “conflitto tra tribù”. Tesi meccanicistica ma che offre spunti
C’è stata invece una frammentazione in bande, fazioni, tribù, etnie, corporazioni, persino clan famigliari. Anche Hamas ed Hezbollah si spiegano in termini di cordate familiari. Non per niente, a Haniyeh, a Nasrallah, a Sinwar, sono succeduti parenti, famigliari. Ucciso un capo, gli subentra uno della stessa famiglia. Molte delle indagini antropologiche condotte in questi ultimi anni nei campi profughi palestinesi in Libano rivelano che l’affiliazione dei più giovani a questa o quella organizzazione e fazione militante non avviene su basi ideologiche o religiose, ma su basi famigliari. Uno entra a far parte di Hamas o della Jihad islamica o qualsiasi altro gruppo seguendo il padre, lo zio o un altro parente. Lo stesso avviene in Cisgiordania. Istruttivo a proposito un film realizzato da un collettivo di militanti e giornalisti israeliano-palestinese. E’ intitolato No other Land. Documenta 5 anni di sgombri e distruzioni di case di pastori palestinesi da parte di coloni armati ed esercito a Masafer Yatta, in Cisgiordania. Pesano padri e zii, la famiglia, non l’ideologia, e nemmeno l’odio per i soprusi subiti.
Un antropologo americano, Philip Carl Salzman, aveva teorizzato, qualche anno fa, che tutto nella cultura mediorientale sarebbe “conflitto tra tribù”, prima che conflitto religioso, o politico. I legami tribali, di famiglia, verrebbero prima di quelli religiosi, ideali, politici. Tesi un pochino meccanicistica. Ma che offre una spiegazione delle dinamiche a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. In Afghanistan, poi in Iraq, a Gaza e in Libano, e ora in Siria.