E’ il recordman del Cervino: la sua è stata una prestazione eccezionale, completata in 7 ore, 43 minuti e 45 secondi. E’ come se Bolt avesse corso i cento metri in 5 secondi, o Phelps nuotato i duecento in un minuto. “Vivo la montagna come un animale: così vado più veloce”
In una parola, alleggerire. “L’anima e il corpo. Senza più pesi, oggetti, attrezzatura: soltanto io e la montagna”. Seguendo il suo credo, Filip Babicz è arrivato più in alto di tutti. E soprattutto più veloce: l’ultima grande avventura, alla fine di quest’estate, è stata il concatenamento delle quattro creste del Cervino. Una prestazione eccezionale, completata in 7 ore, 43 minuti e 45 secondi. “Quattro ore in meno del primato mondiale fino ad allora”. Record sbriciolato. Per rendere la proporzione dell’impresa: è come se Bolt avesse corso i cento metri in 5 secondi, o Phelps nuotato i duecento in un minuto. Qualcosa di sovrumano. “È vero, un tempo impensabile”, sorride l’atleta italo-polacco. “Per avvicinarmi a un obiettivo del genere impiego un mese. In questo periodo non c’è più niente e nessuno per me. La concentrazione è totale, l’esperienza totalizzante”. Il segreto? “Arrivare a essere la persona che conosce meglio al mondo il tragitto da percorrere. Senza doverci nemmeno pensare, una volta in gara”. Nel caso del Cervino, Babicz spiega che “quel grande otto disegnato col mio Gps”, e divenuto simbolo dell’exploit, “si basa su una relazione scritta di 47 pagine. Un quaderno di sola descrizione dell’itinerario, indecifrabile per qualunque altro alpinista: nessuno capirebbe, tanto è dettagliato. C’è da perdersi. A me invece serve per andare il più veloce possibile”. La mente ha già risolto il rebus.
C’è poi un libro a tutti gli effetti, a opera di Babicz, uscito a dicembre nelle librerie: si chiama “Oltre l’immaginabile” e racconta “le storie di un alpinista alla ricerca della perfezione” (Rizzoli, 272 pp., 25 euro). “Una panoramica del mio percorso”, spiega lui al Foglio sportivo. “In realtà mi sento più atleta che alpinista. Devo tutto allo sport, all’altitudine”. E al caso. L’infanzia in Polonia, ai piedi dei Monti Tatra. “Gli unici di carattere alpino in tutto il paese: mio papà è una guida di queste montagne e mi ha trasmesso la passione per questo mondo. Ho cominciato con l’arrampicata ad alti livelli”, allenandosi perfino insieme al campionissimo François Legrand. “Per quasi due decenni, fino al 2015, ho creduto che questa fosse la mia vocazione”. Poi? “Mi stavo preparando per la Coppa del mondo, all’inizio dell’annata agonistica. Tre giorni prima del debutto mi faccio male al dito: un infortunio complicato per questa disciplina sportiva. Ho dovuto saltare l’intera stagione. Così, durante la convalescenza, sono tornato alle origini – in montagna”. Babicz ha 42 anni e metà della sua vita l’ha trascorsa qui, in Valle d’Aosta, “un parco giochi per uno come me. E in quell’occasione arriva la mia prima grande gita, di cui parlo anche nel libro: sul Cervino, quasi per curiosità. Mi sono trovato bene e una settimana dopo ho provato ad andare veloce: per quanto frequentatore, all’epoca non ero né skyrunner né alpinista affermato. Eppure ne uscì un tempo molto convincente: andata e ritorno in 5 ore e un minuto. Una performance, considerando che il record femminile è di quasi un’ora più lento”.
Di colpo, Filip si rende conto di avere un altro talento. “A incoraggiarmi ancora di più sono state le emozioni pazzesche che ho provato: questa libertà assurda, questi brividi senza i quali ora non potrei vivere. Da lì ho deciso di abbandonare l’arrampicata sportiva e continuare per questa strada. Si è chiusa una porta e si è aperto un portone”. Tra le rocce e le nuvole. “Ci sono vari livelli per spingersi in queste performance estreme. Già muoversi in alta montagna privi di attrezzatura non è scontato, senza tattica e preparazione adeguata. La velocità è un di più. Succede allora che mi muovo in un terreno impervio, sciolto da ogni peso: mi sento come un cavernicolo, un animale delle nevi, uno stambecco che conta solo sui propri mezzi. L’uomo ha la tendenza di cercare assicurazioni e precauzioni. Io rifiuto questo costrutto: è un po’ tornare allo stato brado, vivere la montagna allo stato puro. Questo ovviamente comporta dei rischi. Non è raccomandabile per chiunque: ci vogliono doti, audacia. E preparazione, appunto”. La principale fonte di sicurezza.
Babicz sostiene che ci sono due tipi di emozioni a tenerlo incollato ai pendii più inaccessibili del pianeta. “Quando si spinge sull’acceleratore per realizzare un record, il corpo umano raggiunge ritmi incredibili. Un tunnel spazio-temporale, lo chiamo io: la gente mi guarda come se fossi pazzo, ma è così. E un aspetto concreto di questo tunnel è il rallentamento del tempo durante la trance agonistica. Tutto si diluisce”. Quasi un’esperienza psicotropa – e il campione ne parla un po’ da dipendente. “L’altro sentimento subentra quando il rischio è al limite della mia accettazione: penso all’Appointment with Death in Inghilterra”. Nomen omen di una parete straordinaria. “Sono stato il primo di sempre a percorrerla in solitaria. Mi sentivo come in un sogno lucido: mentre uscivo fuori da questo pericolo – se non mortale, ci andiamo vicini – sapevo che stava succedendo per davvero, ma allo stesso tempo era una sensazione talmente strana da sembrarmi onirica. Tipo Vanilla in the Sky”, il film con Tom Cruise. “È questo stato animalesco a farmi correre con leggerezza unica, coprire distanze impensabili e rompere ogni elemento artificiale tra uomo e natura”. Un’adrenalina prossima al sublime kantiano: qualcosa di immenso e potentissimo. “Vivo a pieno questi momenti. E la mia difficoltà nel raccontarli è l’esatta descrizione dell’esperienza estrema”.
Babicz si è spinto anche oltre l’Europa, verso nuovi picchi e nuovi cieli. “L’ultima volta in Patagonia: altra grande avventura in solitaria. Lì il problema era il maltempo, su una parete famosa per le estreme difficoltà di ritirata, col primo centro abitato a 30 km di distanza. E se altre due cordate partite lo stesso giorno hanno mollato dopo cento metri, io ne ho fatti 800”. Prossimi obiettivi? “Non li rivelo mai a priori. Se c’è un grande rischio, voglio altrettanta libertà di scelta e nessuna pressione esterna. Posso dire però che tutto quello che ho in mente è più grande di ciò che sono riuscito a fare. Vi lascio immaginare dove”. Di solito, prima o poi, alpinismo chiama Himalaya. “Ma le mie montagne predilette restano le Alpi. Un laboratorio all’aria aperta, ideale per certe performance sportive: non serve andare dall’altra parte del mondo per trovare una sfida estrema”. Filip ne ha fatto perfino casa. O un campo base perenne, fate voi.