Figlio di politico, nipote di cardinale, amico di Civati e Renzi, stimato da Bindi e da Prodi (che però si chiede: infiammerà la gente?), autore di un libro con prefazione di Sergio Mattarella. Ha esordito come avvocato tributarista, ed è sua la rivoluzione digitale del fisco. All’Agenzia delle entrate per quattro governi, in politica chissà. Sarà davvero “federatore”?
Non archiviate i vostri errori. L’ha detto lui, Ernesto Maria Ruffini, già direttore dell’Agenzia delle Entrate (le sue dimissioni sono state rese note ieri, via intervista al Corriere) ma non ancora federatore di quel centro politico impalpabile eppure pesantissimo, ché nel fantomatico settore “né di destra né di sinistra” ci sono già in azione vari concorrenti più o meno espliciti, con altrettanti suggeritori occulti e non. Abbiate cura dei vostri errori; sono i vostri fallimenti, le righe bianche tra un punto e l’altro del curriculum, a rendervi quelli che siete: lo diceva lui, Ruffini, durante una lectio magistralis alla Scuola nazionale dell’amministrazione, lasciando gli astanti quasi quasi come davanti allo Steve Jobs di “stay hungry, stay foolish”. Restate affamati, restate folli, diceva il fondatore della Apple; “ho fatto i miei errori e continuerò a farli”, diceva Ruffini, e, a vederla dall’oggi, la frase è suscettibile di diversa interpretazione. Parlava del passato, Ruffini, ma chissà, ci si domanda, forse stava già andando con la mente a una sorta di ideale discesa in campo, negata ieri a parole nell’intervista al Corriere, e suffragata, anche se nel senso lato di impegno per la collettività, da diversi fatti, a partire dalla partecipazione di Ruffini al convegno dei cattolici democratici all’Università Lumsa (il luogo dove l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate ha detto, lunedì scorso, la frase che lo ha inchiodato all’ipotesi politica: “Essere spettatori è un lusso che non ci possiamo permettere”) fino alle dimissioni, evocate nei giorni precedenti da varie parti (da Matteo Renzi nelle vesti di ex premier che nel 2014 aveva voluto Ruffini nel suo inner circle, e che oggi gli consiglia di lasciare l’incarico in caso di entrata in partita, e da Maurizio Gasparri che, dal centrodestra, si mostra netto con un “si dimetta”). Ci sono stati poi, a riempire il carnet degli indizi, gli endorsement convinti nel mondo cattolico (Rosy Bindi, Bruno Tabacci), il sostegno dietro le quinte dell’ex ministro dem Dario Franceschini e, pur con corollario dubitativo (“bisogna vedere se la gente s’infiamma”), la stima dell’ex premier e nume tutelare del centrosinistra Romano Prodi, autore della prefazione di uno dei libri di Ruffini (“L’evasione spiegata a un evasore”, volume con copertina magrittiana e postfazione di Vincenzo Visco, edizioni Futura).
E si capisce, nel bailamme di congetture attorno all’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate, che anche le prefazioni possano parlare, visto che quella per “Uguali per Costituzione-storia di un’utopia incompiuta dal 1848 a oggi” (ed. Feltrinelli) a Ruffini l’ha scritta direttamente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, cosa che, nei giorni scorsi, ha nutrito altre elucubrazioni su questo fantomatico centro fluttuante, ipotizzato attorno a un Ruffini reticente ma non troppo (non scende in campo, dice, scende e basta dalla carica, ma nomina il “bene comune” per ben tre volte nella suddetta intervista delle dimissioni, con carico da dodici quando afferma che “parlare di bene comune è un diritto”). Il tutto anche se Ruffini non è conosciuto presso il grande pubblico, sembra dire Prodi, a dispetto del ruolo apicale in zona tasse e anche se il centro non si sa ancora bene dove abiti (il sindaco di Milano Beppe Sala, altro possibile demiurgo, non a caso sul Ruffini federatore nicchia). Tanto è mobile il centro che viene messo, oltre che sulle spalle dell’ex premier Paolo Gentiloni, persino su quelle dell’ex capo della Polizia Franco Gabrielli (e c’è chi, in questi giorni, ha scherzato in direzione della segretaria pd Elly Schlein: guardie e tasse, siamo sicuri di andare nella direzione giusta?) oppure nello zaino dei non rassegnati dioscuri del Terzo Polo che non fu Matteo Renzi e Carlo Calenda (ognuno per sé). Si va insomma da Calcutta a Madre Teresa, per dirla con Jovanotti, e in questo caso, se si guarda al Ruffini che è stato direttore delle Agenzia delle Entrate dal 2017 a ieri, si va dal governo Gentiloni al governo Meloni, passando per il governo Conte II, su suggerimento dell’allora ex ministro delle Finanze poi sindaco di Roma Roberto Gualtieri, e per il governo Draghi, con alle spalle il governo Renzi – sotto il quale Ruffini è stato membro del Tavolo per l’innovazione e l’agenda digitale e poi amministratore delegato di Equitalia – e in mezzo il dramma della pandemia. Pandemia che ha trasformato per qualche tempo la zucca in carrozza: la temuta Agenzia delle Entrate, ricorda lo stesso Ruffini, in quel frangente aveva vestito i panni di “Agenzia delle uscite”, capace, grazie all’alto grado di digitalizzazione raggiunto con l’ex direttore fin dai tempi di Equitalia (sportello virtuale, sms per ricordare il pagamento delle rate) di effettuare versamenti direttamente sui conti degli aventi diritto e di dare sostegno all’economia reale per venticinque miliardi, con cifre finali non ininfluenti ai fini del giudizio bipartisan sull’uomo che, hanno pensato a destra quando hanno confermato Ruffini al vertice dell’Agenzia, i soldi in qualche modo a casa li porta sempre: trenta per cento in meno di evasione e una corsa al recupero che ha portato fino a un “ritorno” di trentuno miliardi in un anno.
Adesso però ci si domanda: ma lui, Ruffini, che cosa vuole fare, in verità, e con chi? L’ex direttore dell’Agenzia delle entrate, infatti, nato 55 anni fa a Palermo, quinto di cinque fratelli, cresciuto a Roma, diplomato al liceo Visconti, laureato alla Sapienza, avvocato tributarista nello studio dell’ex ministro Augusto Fantozzi, nipote di cardinale (lo zio Ernesto), figlio d’arte politica (suo padre era l’ex ministro democristiano Attilio Ruffini) ma con un debole per l’arte vera (voleva fare il liceo artistico e, dice un amico, “dipinge per riflettere, per calmarsi e per distrarsi”) – oggi pare mistero di difficilissima decrittazione. Per capire, ci si affida a qualche segno, e segno per segno tutte la strade portano a un crocevia rappresentato da un pranzo: nell’estate 2024, in zona Bologna, presenti Dario Franceschini, Romano Prodi, il cardinal Matteo Maria Zuppi, anche amico di Ruffini, e lo stesso Ruffini. Di che cosa abbiano parlato non si sa, ma intanto i nomi parlano da soli. O almeno: parlano al mondo centrista che vuol sentire. C’è poi la leggenda metropolitana che, sempre all’ora di pranzo, colloca un’informale e saltuaria riunione conviviale in una trattoria non lontana dal Quirinale, presenti alcuni degli uomini chiave del Colle, dal consigliere Francesco Saverio Garofani al portavoce Giovanni Grasso e di nuovo lui, Ruffini, sebbene per amicizia e per amore di ragionamento sul bene comune. Rieccolo, il bene comune, primo punto di un ideale manifesto ruffiniano, dovesse mai verificarsi l’ipotesi del salto in avanti, chiamiamolo così, visto che la discesa in campo viene ora allontanata dal diretto interessato. D’altronde Ruffini, lo dice e lo ripete, crede che non soltanto non ci si possa permettere il lusso di stare a guardare, ma neanche quello di accomodarsi in poltrona, tanto che alla Lumsa, al suddetto seminario dei cattolici, l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate ha parlato di “capacità di non rimettersi seduti, ma di continuare il cammino, di fare rete e far circolare i temi emersi”. E infatti Ruffini è reduce da un lungo giro d’Italia per presentare “Uguali per Costituzione (“quasi una pre campagna elettorale”, scherza un parlamentare che lo conosce e lo vorrebbe come collega). I contatti, volendo, li ha. Il fatto è che per ora Ruffini parla da Sibilla, evocando “un’avventura collettiva fondata su rispetto, dialogo, partecipazione, perché ci si può impegnare anche senza avere ruoli, per semplice senso civico: non occorre diventare giardinieri per prendersi cura dell’aiuola davanti casa”.
Cammina cammina, molta strada è stata fatta intanto da quando Ruffini, non ancora ai vertici nel mondo della tassazione, ma già affermato come avvocato, ospitava in casa nelle sue prime trasferte romane Pippo Civati, ex parlamentare pd poi fondatore di “Possibile”. Ed è stato proprio con Civati, nel 2010, che Ruffini ha mosso trasversalmente i primi passi cultural-politici: insieme i due, nel 2010, hanno pubblicano il libro “Attacco alla Costituzione, giorno dopo giorno, articolo per articolo”, con prefazione di Valerio Onida. Alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, scrivevano gli autori, “la certezza è che non esista più l’Italia della Costituente”, e che fatichi “anche l’Italia della Costituzione, sottoposta ad attacchi quotidiani, a provocazioni continue, a banalizzazioni d’ogni tipo” (si era a monte del governo Monti, ancora in epoca Berlusconi). Eppure, era il concetto, “l’Italia della Costituzione sarebbe il paese della cittadinanza, del diritto, delle regole, della lealtà, del rispetto, della laicità e della vera libertà di ciascuno e di tutti”. Visto dal 2024, potrebbe sembrare un altro canovaccio di futuro impegno. Sia come sia, sempre nel 2010 Ruffini accetta l’invito di Civati e Renzi per la prima Leopolda. Il suo intervento è per così dire profetico, nel senso che il futuro direttore dell’Agenzia delle Entrate propone un progetto di riforma del fisco con digitalizzazione dei servizi ai contribuenti e introduzione di strumenti che anni dopo vedranno davvero la luce, dalla dichiarazione dei redditi precompilata alla fatturazione elettronica.
Uomo più di montagna che di mare, a dispetto delle origini siciliane, Ruffini preferisce, dice un amico, “avere una méta da raggiungere piuttosto che stare sotto l’ombrellone” (torna, anche nel tempo libero, il concetto di “mai sedersi”?). Accompagnato nel percorso e lungo vari governi dalla presenza non sbandierata di moglie e figlia, l’ex direttore dell’Agenzia conserva nella memoria e nel cuore uno spazio speciale per il suo ex liceo, il Visconti, antica scuola pubblica del centro storico, ubicata nell’antico Collegio Romano. E dunque, nel gennaio scorso, a un certo punto, sulla pagina Facebook degli ex alunni del Visconti compariva l’annuncio del conferimento del “premio Mattonella” a Ernesto Maria Ruffini (premio andato anche al sindaco Gualtieri), dono affettivo al merito dell’ex allievo e alla memoria dei giorni trascorsi sotto le volte e in cortile, tra solennità delle mura e storie di amicizia e amore tramandate alle generazioni successive fin dai tempi cui al Visconti andava Giulio Andreotti. Dice un ex alunno degli anni di Ruffini che “Ruffini non era tra i più noti o casinari” (“Ruffini chi?”, si è sentito rispondere il cronista, e la frase, vista dal presente, pare dar ragione al suddetto timore di Romano Prodi rispetto al pur stimato Ruffini: “Bisogna vedere se infiamma la gente, questo è il problema”). Per fortuna un altro ex alunno viene in aiuto, narrando di un Ruffini “che già si impegnava in iniziative simil-politiche”, pur non candidandosi direttamente nelle associazioni studentesche. Fatto sta che Ruffini aveva come docente di greco e latino la professoressa Agata Moretti Apicella, mamma di Nanni, donna amata e temuta, anche a un certo punto come vicepreside. Fu lei a insegnare a Ruffini, oltre all’aoristo e alle declinazioni, alcune regole mai più dimenticate, tra cui quella di non guardare l’orologio con insistenza in faccia alla prof. in attesa del cambio dell’ora, e in generale in faccia a una donna. Andava bene a scuola, Ruffini? “Non lo ricordo come un secchione”, dice un ex viscontino non compagno di classe.
Trentacinque anni dopo, Ruffini, dice Rosy Bindi, è “bravissimo”. Ma Renzi gli consiglia di non circoscrivere a Bindi la futura sponsorship. Una cosa è chiara: Meloni e Salvini a un certo punto hanno fatto trasecolare il Ruffini costituente, nel senso dell’amore per la cosa pubblica: “Non mi era mai capitato di vedere pubblici funzionari essere additati come estorsori di un pizzo di Stato, oppure sentir parlare di Agenzia delle Entrate che tiene in ostaggio le famiglie, come fosse un sequestratore”, ha detto l’ex direttore a Fiorenza Sarzanini che lo intervistava, alludendo alla premier per una frase sul “pizzo di Stato” detta nel maggio del 2023, e al ministro dei Trasporti per le parole sulle famiglie “ostaggio del fisco”. Se si uniscono queste parole al discorso alla Lumsa del 9 dicembre, in cui Ruffini parla indirettamente perché governo intenda (“non può esistere una democrazia solo della maggioranza che decide in solitaria”) ma anche perché opposizione intenda (“ma non può esistere nemmeno una democrazia senza una minoranza attiva, che rimane a casa, in panchina, in attesa del proprio turno”), sembra di capire tutto. Ma forse no. Forse, chissà, il film visto fino a oggi è soltanto un primo atto della serie “centristi in viaggio”.