Avanzo primario e crescita. Come uscire dalla trappola della “tripla B”

I nostri titoli continuano ad avere la valutazione più bassa in Europa dopo la grecia. Ma se le agenzie non alzano il voto dell’Italia non è un complotto. Ci sono delle ragioni

Sembra crescere in Italia l’irritazione nei confronti delle principali agenzie di rating, che da tempo non rialzano il voto dell’Italia. I titoli di stato emessi dalla Repubblica continuano ad avere una notazione cosiddetta “tripla B”, la più bassa in Europa dopo la Grecia, nonostante il miglioramento della situazione economica. Come spesso succede nel nostro paese, non scarseggiano le teorie complottistiche.



Sarebbe forse più utile capire perché tali agenzie si muovono con prudenza nei confronti del debito pubblico italiano e perché le critiche non sono sempre pertinenti. La prima critica alle agenzie di rating riguarda il disallineamento rispetto all’evoluzione dei mercati finanziari, in particolare la riduzione dello spread, sceso negli ultimi giorni intorno a 110 punti, ben 100 in meno dall’inizio della legislatura. Perché ciò non è stato accompagnato da un miglioramento del rating?



In realtà, le valutazioni delle agenzie non seguono necessariamente l’andamento del mercato, spesso influenzato da fattori transitori, ma cercano di dare una valutazione di medio periodo. Lo spread italiano ha registrato negli ultimi 10 anni ampie oscillazioni, come la risalita di oltre 200 punti nella prima fase del governo Conte I, o l’aumento di circa 150 punti nella prima metà del 2022, gradualmente riassorbito nei due anni successivi. In quel periodo il rating è rimasto immutato.



La seconda critica è che le agenzie non tengono conto dell’elevato risparmio accumulato dagli italiani. Ciò significa, in realtà, che il risparmio privato viene considerato nella disponibilità delle famiglie e delle imprese italiane, che decidono liberamente come investirli, e non del governo, che non può costringerle a investire in titoli di stato. Aumentare il rating italiano per tener conto dell’elevato risparmio equivarrebbe a ipotizzare la possibilità di manovre fiscali per attingere a tale risparmio – come nel caso di una patrimoniale. Una tale ipotesi di sicuro non migliorerebbe la notazione dell’Italia.



La terza critica alle agenzie di rating è che l’Italia ha una lunga storia di surplus primario di bilancio (escludendo cioè il pagamento degli interessi), molto più virtuosa di altri paesi. Secondo alcuni calcoli, l’Italia ha registrato un surplus primario in 30 degli ultimi 35 anni, contro 4 della Francia, 11 della Spagna e 9 degli Stati Uniti. Questa critica non considera però che il saldo primario richiesto per stabilizzare il debito dipende da due parametri fondamentali. Primo: più alto è il debito pubblico, più elevato deve essere il surplus primario. Secondo: più elevato è il ritmo di crescita dell’economia, rispetto al rendimento dei titoli di stato, più sostenibile è il debito, in rapporto al pil, e dunque più basso deve essere il surplus primario. L’Italia è il paese con debito pubblico più alto e con la crescita più bassa in Europa. Ciò significa che l’Italia deve registrare un surplus primario più elevato rispetto agli altri paesi per stabilizzare il debito pubblico. In altre parole, i surplus del passato sono stati una necessità, più che una virtù.



Esaminando le prospettive dei prossimi anni, in base al piano strutturale di bilancio approvato nel settembre scorso, il saldo primario dovrebbe passare gradualmente dal lieve passivo del 2024 a un surplus del 2 per cento del pil nel 2028, necessario per ridurre il debito. Un obiettivo particolarmente arduo, se si considera che negli ultimi 20 anni solo il governo Monti raggiunse un simile livello, nel 2012. Peraltro, le misure per raggiungere tale obiettivo non sono state ancora definite.



L’altro fattore discriminante per la sostenibilità del debito italiano riguarda, come ricordato sopra, la crescita economica. Dopo il rimbalzo post Covid, sostenuto da una politica di bilancio fortemente espansiva e dai primi effetti del Pnrr, le previsioni di crescita nel medio periodo si attestano intorno all’1 per cento per quel che riguarda il pil, e al 2 per cento per l’inflazione, che presi insieme sono inferiori agli interessi pagati sul debito pubblico, previsti salire nei prossimi anni al 4,5 per cento del pil.



In fin dei conti, la valutazione delle agenzie di rating dipende dalla capacità politica di effettuare le riforme necessarie per aumentare il tasso di crescita dell’economia oltre ai livelli del decennio precedente e, al contempo, portare il surplus primario dell’Italia oltre il 2 per cento del pil, cosa che non avviene dall’inizio di questo secolo. Ogni progresso in questa direzione, di sicuro, contribuirà a migliorare il rating dell’Italia.

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