Arrigo Cajumi, l’uomo che da Torino vide muoversi un pezzo di storia d’Italia

In questi giorni viene pubblicato I miei libertini, il libro che raccoglie gli scritti di un raffinato saggista piemontese ahimè dimenticato se non dai collezionisti. Visse giorno per giorno i contrasti furibondi tra un nascente fascismo e chi vi si oppose direttamente

Vero o non vero quel che qualcuno scrisse a suo tempo, che era stata l’Italia a conquistare il Piemonte, a marchiarlo della sua bellezza e della sua creatività, a farne uno stato a sé e che stava in testa a tutti gli altri, è certamente vero il contrario, che il Piemonte ha fatto di tutto per conquistare l’Italia a darle il profilo che sappiamo. Coloro che in Italia amano i libri sanno bene che nell’Italia del Novecento la capitale dell’editoria è stata a lungo Torino, a cominciare dal fatto che nel 1933 l’allora ventunenne Giulio Einaudi (figlio di un futuro presidente della Repubblica) vi fondò assieme ad alcuni suoi compagni di studio la casa editrice Einaudi.

Ebbene proprio in questi giorni la più importante collezione privata di libri editi dalla Einaudi dagli anni Trenta agli anni Ottanta, quella collezione che Claudio Pavese (nessuna parentela con lo scrittore) aveva intrapreso più di trent’anni fa, è stata trasferita nei locali milanesi della Fondazione Biblioteca di via Senato. Quella creata dall’accanitissimo bibliofilo che risponde al nome di Marcello Dell’Utri. Si tratta della bellezza di 4.343 fra libri e riviste che includono nella loro completezza tutte e novantadue le collane della casa editrice torinese e magari i libri di collane che erano state annunciate ma di cui poi venne alla luce un unico libro. Un vero e proprio monumento editoriale della cultura italiana. Su cui è lampante il marchio di Torino e della piemontesità.

Caso vuole che in questi stessi giorni la casa editrice Aragno pubblichi I miei libertini, il libro che raggruma gli scritti di un raffinato scrittore e saggista piemontese ahimè dimenticato se non dai collezionisti, Arrigo Cajumi (nato a Torino nel 1899, è morto a Milano nel 1955), uno che in quel bel mezzo di Torino visse e operò e seppe raccontarlo giorno per giorno, libro per libro, scrittore per scrittore. Cajumi li ebbe di fronte tutti i protagonisti di quello scorcio di storia italiana, Einaudi junior, Piero Gobetti e le sue riviste, Cesare Pavese (“spilungone, dal gran naso sul volto affilato”), Leone Ginzburg (che morrà in una cella fascista), il professor Augusto Monti che fece da maestro di Gobetti e di Ginzburg, l’Antonio Gramsci che a Torino stava dando vita al Partito comunista d’Italia e di cui Cajumi scrive che lo ebbe come un fratello. Cajumi visse giorno per giorno i contrasti furibondi tra un nascente fascismo e chi vi si oppose direttamente, laddove lui stava come a metà tra i due opposti schieramenti, a metà tra chi teneva in gran pregio il liberalismo del cinque volte presidente del Consiglio Giovanni Giolitti e i suoi numerosi avversari che gli davano del “ribaldo”.

Da non comunista Cajumi tenne in gran conto Gramsci (i cui libri verranno tutti editi e riediti dalla Einaudi) e i suoi sodali, il comunismo cui lui diede vita e i caratteri di quel comunismo che Cajumi seppe commentare così: “Qualcuno si chiederà perché i curatori delle opere di Gramsci abbiano voluto rivalutare l’Ordine Nuovo che rivela la sconfitta della sua politica, i fatti meno apprezzabili del suo temperamento, il suo fanatismo. Non è cosa che ci riguardi: noi siamo lieti che i testi tornino in luce, e che ciascuno possa leggere, giudicare, valutare una visione settaria del 1919-1920 che ebbe per frutto amaro il fascismo”. Mi pare che difficilmente si potesse scrivere meglio, che meglio si potesse rendere l’aura di quei tempi e anni talmente drammatici. Dove le ragioni degli uni e degli altri si intrecciavano in modo così tormentato e dove anche personaggi di gran conto oscillarono tra l’una e l’altra parte, tra l’uno e l’altro fanatismo. Anni in cui gli italiani si diedero addosso gli uni contro gli altri ancor peggio di quanto avessero fatto contro gli austriaci.

E comunque il personaggio centrale di questa raccolta di scritti non poteva non essere un piemontese calzato e vestito, Cesare Pavese (era nato nel 1908). Così come non poteva non essere l’America “il primo amore” della sua generazione. E difatti Pavese cominciò da traduttore dall’americano, la sua celeberrima versione del 1932 del Moby Dick di Herman Melville venne covata per un paio d’anni prima di essere pubblicato da un altro e struggente editore piemontese, quel Frassinelli che fece da antefatto della Einaudi: nel senso che Giulio Einaudi nei locali della Frassinelli apprese le regole del mestiere, l’inclinazione del gusto, l’ardire nello scegliere libri e titoli poco “popolari”. Cajumi ne scrive con particolare intensità e partecipazione: “Intorno al 1930, questi intellettuali di primo pelo, mentre il fascismo diventa ‘la speranza del mondo’, scoprono una ‘America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda e insieme giovane e innocente, e la esplorano. Per un decennio leggono, scrivono, traducono: Caldwell, Cain, Dos Passos, Steinbeck […] cosituiscono lo spiraglio di libertà, lo sfogo dell’indisciplina sociale e morale che travaglia i nostri ragazzi”.

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