Nel 2013 Grillo, denunciando un golpe immaginario, si era messo in camper e aveva invitato milioni di cittadini a raggiungerlo a Roma per riprendersi la democrazia tradita. La mossa verso la capitale avrebbe dovuto rassicurarci
Tutte le strade della megalomania politica portano a Roma, e questo può essere tanto la nostra disgrazia (la marcia su Roma, ovviamente, ma anche le Br che formano una colonna romana per stare più vicine al cuore dello Stato) quanto la nostra salvezza. Tutto a ben vedere si basa su un equivoco, una grandiosa illusione ottica post-unitaria: che Roma, questa sterminata provincia al margine di tutti i processi storici che contano, possa essere il centro di alcunché. E invece la città in cui vivo mi ricorda tanto un luogo infestato, una palude psichica, uno di quei miraggi maligni nel deserto in cui ogni campagna di conquista è destinata ad arenarsi, ogni strategia razionale a incagliarsi nell’insensatezza, ogni azione risoluta a dissolversi in gesticolazione. Un delizioso genere letterario minore di fine ottocento noto come “romanzo parlamentare” aveva capito Roma meglio di tanti capolavori. Le trame si somigliavano tutte: un giovane di belle speranze e di buone intenzioni dalla provincia arriva a Montecitorio e senza avvedersene, giorno dopo giorno, viene risucchiato nelle spire di quelle sabbie mobili perenni, dunque perennemente immobili. Se ci ripenso proprio in questi giorni è perché la fine ingloriosa di Beppe Grillo, ormai incapace di telecomandare un partitino romanocentrico di notabili di quart’ordine, non è che l’ultima ripetizione dell’antico canovaccio. E dire che ci eravamo tutti spaventati nel 2013 quando Grillo, denunciando un golpe immaginario, si era messo in camper e aveva invitato milioni di cittadini a raggiungerlo a Roma, bomba o non bomba, per riprendersi la democrazia tradita. Quella alzata d’ingegno avrebbe dovuto rassicurarci: stavano marciando dritti nel cuore della palude.