Blocco dei trasporti. Il caos per gli utenti, il trionfo delle sigle minoritarie e le responsabilità di Cgil-Cisl-Uil. Volevamo la settimana corta come scelta di libertà dalle nevrosi del lavoro e per una maggiore conciliazione con la vita, ora ce la becchiamo nella versione peggiorata, senza poterci muovere di casa nell’ultimo giorno che precede il week end
Repubblica – per di più con un titolo scaligero-verdiano “La forza dei diritti” – ha aperto i commenti inneggiando alla decisione del Tar di annullare la parziale precettazione dello sciopero dei trasporti indetto dai sindacati di base. La “torsione autoritaria” è stata così respinta e il ministro Matteo Salvini dovrebbe occuparsi d’altro. Ora è evidente che la gestione del Mit sotto il leader della Lega coincide con l’incapacità di fare valere in qualche modo “la stanza dei bottoni” ministeriali per dar pace a un settore falcidiato dai ritardi e dalle inefficienze, ma resta il fatto che “la forza dei diritti” dei consumatori e degli utenti è stata ancora una volta calpestata e derisa. Sarà anche vero che in base alle norme esistenti il Tar non poteva che confermare quanto sottoscritto dalla commissione di garanzia (e dare torto a Salvini).
Ma il problema dei cosiddetti scioperi del venerdì rimane in piedi grande come una casa e non lo si può legittimare solo sulla base dei formalismi tecnico-giuridici. Codicilli contro realtà. Questa tipologia di scioperi terziari ha infatti introdotto nella storia (gloriosa) del sindacalismo italiana una variante impazzita: lo sciopero-annuncio. Costruito per metà sulla possibilità dei dipendenti di minimizzare i costi dell’astensione dal lavoro giocando sulla turnistica e la vicinanza del week end e dall’altra sull’effetto-panico trasmesso alla clientela, che cerca disperatamente nei giorni immediatamente precedenti di prendere le contromisure per non restare in piedi. Per lo più intasando strade e autostrade di veicoli privati con tutto quello che ne consegue in termini di ritardi, ingorghi, incidenti. Risultato: volevamo la settimana corta come scelta di libertà dalle nevrosi del lavoro e verso soluzioni innovative di conciliazione con la vita, ce la becchiamo nella versione peggiorata e obbligata dell’impossibilità di muoversi di casa nell’ultimo giorno che precede il week end.
Lo sciopero del venerdì poi rappresenta la vittoria degli scioperi minoritari (come quelli generali lanciati da Cgil e Uil), il cui scopo non è conquistare la maggioranza dei lavoratori e tramite la lotta condurli verso nuovi obiettivi di miglioramento della propria condizione lavorativa ma occupare la scena mediatica, produrre caos e per questa via legittimare la presenza di questa o quella sigla sindacale. E’ la cobasissazione culturale delle relazioni industriali, un sindacalismo giacobino nel quale pochi “audaci” possono decidere per molti. E infatti Sasha Colautti, a nome dell’Usb, può dichiarare al Corriere che “la nostra battaglia continua, andremo avanti con le mobilitazioni”.
Avanzare questi discorsi non vuol dire contestare il diritto allo sciopero ma solo cogliere la differenza degli scioperi terziari in cui i soggetti in gioco sono tre: l’organizzazione che li promuove, le controparti sindacali e l’utenza. Che ovviamente non gode di nessun diritto, non troverà nessun Tar che la difenderà (quello del Lazio ha parlato a proposito dei disagi non del classico effetto collaterale ma di “effetto fisiologico”) e che però paga di tasca propria (trovando soluzioni cash al bisogno di mobilità) l’effetto della manifestazione di dissenso sindacale. E’ in virtù di questi ragionamenti che rivedere con giudizio le norme sul raffreddamento dei conflitti non è da considerarsi una bestemmia, si tratta di mettere a punto norme che non siano così facilmente aggirabili dai sindacatini-corsari.
A rendere ancora più odioso lo sciopero di oggi c’è la circostanza che nei giorni scorsi è stato raggiunto un pre-accordo per la firma del rinnovo del contratto del trasporto pubblico locale. Una vertenza-fiume durata anni e che finalmente ha trovato un punto di equilibrio tra le parti che dovrebbe portare a un nuovo contratto che prevede per 100 mila addetti un aumento medio di 200 euro e un aumento medio del trattamento economico del 13 per cento (fonte sindacale). Per carità, non è la panacea ma è la dimostrazione che, volendo, la contrattazione qualche ruolo può ancora giocarlo e comunque è la strada maestra per produrre soluzioni senza protagonismo delle piccole sigle, dei magistrati amministrativi e dei ministri in cerca dell’ennesimo Instagram di giornata.
E proprio nella chiave di rinnovate procedure di scambio e di rilancio delle relazioni industriali la grande novità da introdurre contro la guerriglia degli scioperi del venerdì si chiama referendum. Vuol dire rilanciare le ragioni del sindacalismo maggioritario che non paura di scrivere una piattaforma di lotta realistica e centrata su obiettivi largamente condivisi, che non ha paura di sottoporla preventivamente al giudizio del suo popolo e non teme di farsela votare. Uno sciopero così costruito può avere addirittura anche l’appoggio dell’utenza (perché il giorno dello sciopero i sindacati non organizzano gazebo per spiegare ai cittadini i motivi dell’astensione?), scaccia le piccole sigle e rafforza la relazione sindacato-lavoratore che oggi è di fatto delegata ai servizi amministrativi che Cgil-Cisl-Uil offrono nei loro patronati.
Ps. I sindacati confederali dovranno però decidersi, unitariamente, a fare i conti con i Cobas. Sugli scioperi del venerdi non prendono le distanze, adottano il loro stesso lessico (“la rivolta”) e di fatto lasciano loro intere aree di intervento (la logistica, il tessile cinese del Pratese) a loro disposizione. Se non siamo alla complicità, quasi.