La popolarità immediata di chi sarà sottoposto a un processo epico e politico e una società pronta a dividersi. Ma alla base di tutto c’è quella paura mai così tanto diffusa e atrocemente sentita della morte
La storia di Luigi Mangione, americano e nostro compatriota etnico, si allinea, per chi voglia saperne qualcosa dello stato dell’umanità contemporanea, con la guerra canagliesca in Ucraina e il pogrom del 7 ottobre 2023. Ha ucciso a sangue freddo, all’alba, un manager delle assicurazioni sanitarie, sparandogli nella schiena in una via di Manhattan. E’ fuggito lasciandosi dietro uno zainetto pieno di soldi del Monopoli. Aveva scritto il suo grido di guerra (Deny, Defend, Depose) sulle pallottole uscite dalla sua arma: sono i tre vizi capitali delle assicurazioni sanitarie che negano un rimborso (Deny), ti incastrano legalmente (Defend), ti scaricano (Depose, ma quest’ultimo verbo può essere letto all’opposto come la volontà di scaricare, eliminare, i responsabili). La versione corretta del grido parafrasato da Mangione è il titolo di un libro di successo scritto da un luminare della Rutgers University sulle tecniche algoritmiche per colpire gli utenti della sanità assicurativa negli Stati Uniti: Jay M. Feinman, “Delay, Deny, Defend. Perché le compagnie assicurative non pagano i rimborsi e che cosa puoi fare per rimediare”.
Chi uccide per vendicare i deboli della comunità, per aggiustare gravi torti sociali, è considerato un folk hero, un eroe popolare, un campione letterario vicino al cuore del popolo, e Mangione non fa eccezione, anzi. Bello, con i riccioli neri e un sorriso contagioso, è un giovane uomo ricco e ben istruito di Baltimora. E’ più che bello, è hot, è sexy, e gli analisti dei miti d’oggi, che si affollano nel campo della semiologia e della moda, lo caratterizzano per il suo glow, la sua incandescenza e il suo splendore, elementi decisivi fin dalla prima fotocronaca, gli occhi aperti e comunicativi sotto il cappuccio street fashion esaltati dalla mascherina, poi confermati dal diluvio di immagini del bravo ragazzo indignato e appassionato che tiene il suo valedictory alla fine del corso di studi in blazer blu, immagini invadenti nella rete dei social e accompagnati da espressioni di comprensione o di esaltazione e da atti di aiuto finanziario per la difesa legale. Queste cose formali e d’immagine hanno un immenso valore, spiegano molto della popolarità immediata di chi sarà sottoposto a un processo epico e politico, in una società pronta a dividersi sul sostegno alle tesi fissate nel sangue dal killer buono e per i buoni, tuttavia c’è dell’altro, molto altro.
Se leggete il colloquio, lungo e intelligente, degli opinionisti del Times sul caso Mangione, così, a caldo, vedrete che la rabbia populista contro corporation assicurative grette, neghittose, contro questi che vengono definiti automaton pronti a sbranare per profitto d’impresa il diritto della gente alla salute, alla cura privata o pubblica della persona insidiata dalle malattie, è propria anche delle élite, della gente informata, metropolitana. Nessuno tra coloro che commentano l’assassinio del manager dubita anche solo minimamente che l’ostilità furiosa contro il sistema assicurativo e i suoi metodi sia da condividere con sentimenti e argomenti non già fumosamente analoghi ma letteralmente identici a quelli del killer che vendica la comunità. Rivelatore, e parecchio, l’incontro nella rabbia populista di un killer e di opinionisti che non vengono dal popolo ma esercitano professioni, per così dire, simili a quelle del giustiziere, quando si tratti di giudicare una punta di lancia del sistema capitalistico e privato americano, nel campo molto emblematico della sanità, della cura della salute.
C’è chi dice che è una nuova forma estrema della lotta di classe. Ma nessun finanziere è stato fucilato alla schiena da un folk hero quando per effetto della crisi dei titoli subprime milioni di case furono sequestrate e messe sul mercato. I banchieri non hanno il camice, non sanno di zolfo come big pharma e assicurazioni. Si occupano anche loro e a modo loro dell’esistenza, e dell’esistenza sociale di milioni di persone, causano la perdita del lavoro e del reddito, se del caso, ma non sono percepiti come aguzzini, cosa che invece accade nel campo della “cura” e dei suoi costi. La parola profitto nel loro caso non gronda sangue.
D’altra parte basta pensare che in sistemi opposti a quello americano, come in Francia e in Italia, fenomeni di odio sociale verso la medicina e i suoi ritrovati scientificamente testati, come i vaccini, e casi di assedio, di violenza organizzata, di pestaggi di operatori, in ambito medico e ospedaliero, si sono rincorsi e hanno fatto notizia sebbene le spese siano in larghissima misura a carico dello stato, e non siano in questione lotte accanite intorno a un contratto e accuse di frode in commercio a danno della vita, come intorno all’alba tragica di Luigi Mangione in un sistema che per tradizione culturale affida alla responsabilità individuale, in molti casi con l’eccezione parziale del Medicaid e del Medicare, la tutela sanitaria. Ma anche da noi le polemiche serrate e politicizzate intorno alla spesa per la salute, intorno alle tutele e garanzie, che si parli degli investimenti pubblici, una volta da razionalizzare e tagliare per evidenti sprechi, una volta da irrobustire ed espandere per l’allarme sociale che circonda queste cose, o dell’efficienza e della famosa malasanità, costituiscono l’alveo su cui si sono dispiegate le campagne ostinate e non del tutto perdenti sulla vaccinazione, con le propensioni a processare, ora anche in Parlamento, tutto quello che la cultura o subcultura no Vax rifiuta o di cui dubita e diffida.
Si può pensare che la chiave di questo nichilismo psicotico in cui si riassumono l’attentato di Manhattan e il bel delirio filosofico di Mangione e del vasto popolo dei suoi sostenitori, consapevoli e no, sia la paura mai così diffusa e atrocemente sentita della morte, la consacrazione a un’idea della vita come diritto che fa perfetta simmetria con quella della morte come diritto. Ma sono cose complicate sulle quali si dovrà continuare a discutere.