Togliete l’insegnamento del bello, e dell’istruzione non resterà nulla

Non è la scuola dell’apprendimento utile a mancare, ma quella del pensiero critico, della riflessione, di quella sorta di “contemplazione dell’umano” che avviene soprattutto nell’ambito della dimensione estetica

L’impressione è netta, difficile equivocare. La si percepisce ai consigli di classe, nella definizione delle attività, persino nei frettolosi dialoghi sulla porta dell’aula: malgrado alla scuola formalmente si riconosca ancora il compito educativo che la caratterizza nell’immagine consegnataci dalla nostra tradizione, nei fatti si assiste al graduale affievolirsi della sua funzione culturale. Osserviamo l’orizzonte della didattica colmarsi di competenze pratiche, saperi utilitaristici, progetti a orientamento professionalizzante – i quali, pur riempiendo i giovani animi di abilità spendibili nel mondo del lavoro, lasciano però insoddisfatti i loro veri e più profondi bisogni – e contemporaneamente a uno sguardo attento non sfugge quello che potrebbe definirsi come l’indebolimento della struttura culturale della scuola fin dalle sue fondamenta. Il disagio è avvertito da molti e, benché non sempre si traduca in una reale consapevolezza dei cambiamenti che investono la scuola, risuona drammaticamente urgente la domanda su che cosa, oggi, sia più importante offrire all’attenzione degli studenti.

“Togliendo dagli studi il bello (come si fa ora) si farà un vero disservizio, un danno reale al genere umano, alla società civile”: parole annotate da Giacomo Leopardi quasi duecento anni fa, ma sorprendentemente capaci di interrogarci oggi, mentre assistiamo alla riduzione dello spazio dedicato ai saperi tipicamente formativi del soggetto, i quali appaiono, agli occhi di una mentalità ormai diffusa, secondari in quanto privi di una spendibilità immediata nel mondo del lavoro. Il fatto è, tuttavia, che il compito precipuo della scuola – almeno nella concezione che di essa ha avuto la nostra civiltà dal mondo classico in poi – non sia quello di orientare i giovani verso il mondo del lavoro, ma quello di concorrere alla formazione della persona nella sua integrità. Non poche persone sembrano oggi domandarsi perché dovrebbero avvicinare i propri figli all’arte, alla storia della letteratura, a un approfondito rapporto col nostro passato, o se invece non sia meglio privilegiare competenze molto più utili nel contesto odierno, pratiche e concrete (di qui il discredito che si attua nei confronti del liceo classico, la cui proposta viene talora guardata con l’alterigia tipica di chi, non capendo nulla di ciò che ha davanti, passa oltre con indifferenza).

Non si avvede, chi pensa in questo modo, del fatto che l’aspetto più pratico e concreto è proprio la formazione del soggetto, la persona in quanto tale, a prescindere dal mestiere che un domani svolgerà. Non la scuola dell’apprendimento utile è ciò che manca, ma quella del pensiero critico, della riflessione, di quella sorta di “contemplazione dell’umano” che avviene soprattutto nell’ambito della dimensione estetica: proporre la bellezza come esperienza disinteressata, l’apprendimento non orientato ad alcuno scopo se non quello della maturazione del soggetto. Perché, come ha scritto Dostoevskij, “l’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”. Tempo fa, la filosofa ungherese Ágnes Heller sentì rivolgersi, durante un’intervista, la domanda su che cosa sia più importante studiare a scuola. Ecco la sua risposta: “Prima di tutto, solo cose inutili: greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita. Il bello è che così, all’età di diciotto anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose”.

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