Nel paese baltico la scuola insegna a cavarsela ma, per il resto, si fa gli affari propri, senza l’ambizione di plasmare il cittadino modello. E i risultati le danno ragione: ha ricevuto le migliori valutazioni di tutta l’Unione europea nel rapporto Ocse-Pisa
E adesso, come la mettiamo con l’Estonia? Nei giorni scorsi il paese baltico ha ricevuto le migliori valutazioni di tutta l’Unione europea nel rapporto Ocse-Pisa, con un netto primato nell’apprendimento della matematica e nelle scienze. Parallelamente, come ha spiegato Pietro Minto sul Foglio di giovedì, i dati dell’indagine Timms del Boston college (Trends in International Mathematics and Science Study) vedono l’Italia sì cavarsela in matematica, ma con due divari persistenti: quello fra scuole settentrionali e meridionali, quello fra alunni e alunne. Cosa ci manca per diventare come l’Estonia?
La questione merita una doverosa premessa. L’Italia è impegnata da molti anni in uno sforzo ragguardevole nella diffusione delle Stem, le scienze dure quali matematica, fisica, biologia, chimica, informatica, ingegneria. Il ministero ha diramato al riguardo corpose linee guida che forniscono indicazioni metodologiche, anche innovative, dando la possibilità di incardinare sui fondi Pnrr progetti didattico-scientifici. La disparità nei risultati fra nord e sud è monitorata da anni, grazie ai test Invalsi. Innumerevoli e benemerite sono inoltre le attività volte a incoraggiare le studentesse all’approfondimento di queste materie, superando il diffuso (e stupido) pregiudizio secondo cui sono argomenti “da maschi”.
Bene, benissimo, eppure non reggiamo il paragone con l’Estonia. Ciò può indurre a un ragionamento di più ampio respiro, che si estenda su una questione di vasta portata: ma noi italiani, di preciso, cosa ci aspettiamo che insegni la scuola? Siamo un paese il cui sistema dell’istruzione conserva molta voce in capitolo nel comportamento degli studenti. Alle superiori mettiamo un voto in condotta e uno in educazione civica; periodicamente il ministero emana circolari sempre più restrittive quanto all’uso dei telefonini; ingressi e uscite vengono messi a registro con precisione certosina; molti consigli di classe decidono della disposizione dei banchi; ancora a diciannove anni, per andare in bagno, bisogna chiedere pubblicamente il permesso. A ciò si aggiunge una pletora di iniziative, anche interessanti, focalizzate su aspetti etici dell’educazione: dall’affettività alla ludopatia, dalle mafie alle commemorazioni. Poi gli studenti si accoltellano e i genitori picchiano gli insegnanti.
Cosa c’entra con la matematica? C’entra, perché la scuola italiana appare prigioniera di una contraddizione insita nelle aspettative dei suoi utenti (docenti, alunni, famiglie). Da un lato l’Italia investe la scuola del dovere di educare moralmente i giovani, addirittura di risolvere tragedie sociali di vastissima portata: l’ultimo caso è il protocollo annunciato dal ministro Valditara in accordo con la Fondazione Cecchettin, che con le migliori intenzioni auspica di introdurre l’educazione al rispetto delle donne anche tramite corsi di formazione per gli insegnanti. Dall’altro però l’Italia rimprovera alla scuola di non essere in grado di preparare adeguatamente gli alunni a materie fondamentali per il loro futuro e, soprattutto, di non riuscire a garantire effettive pari opportunità nell’apprendimento curricolare, che resta condizionato da provenienza e genere.
Quindi, l’Estonia. A quanto pare, lì l’approccio è opposto rispetto al nostro, e non nell’insegnamento della matematica. In un’intervista al Corriere, Kristina Kallas, ministra dell’Istruzione, spiega che i piccoli estoni sono educati ad auto-organizzarsi sin dall’asilo; le scuole hanno un’autonomia tale da consentire a plotoncini di studenti di concordare le strategie didattiche più efficaci; soprattutto, sono liberi di usare il telefonino (“non riguarda la scuola: è responsabilità dei genitori”), che da noi sembra invece l’origine di ogni male. Sintetizzato in modo brutale, in Estonia la scuola insegna a cavarsela ma, per il resto, si fa gli affari propri, senza l’ambizione di plasmare il cittadino ideale. Se i risultati le danno ragione, forse conviene imitarla, anziché trasferirsi lì.