La caduta del regime siriano segna la fine della “mezzaluna sciita” e rilancia il ruolo della Turchia. Russia e Iran in crisi, mentre Israele e Stati Uniti osservano opportunità e rischi
Chi vince e chi perde in conseguenza del crollo del regime cinquantennale degli Assad in Siria? Se la lista degli sconfitti è tutto sommato semplice – la Russia, l’Iran e Hezbollah su tutti ma anche Hamas e più in generale i palestinesi – quella dei vincitori è decisamente più complessa e sfumata. Certamente include la Turchia e sotto più di un aspetto Israele e gli Stati Uniti. Ma il futuro degli Accordi di Abramo appare più incerto e una serie di altri attori locali – Libano, Egitto e Giordania – corrono rischi di destabilizzazione. Emergono però due tendenze che consolidano il trend della politica internazionale del XXI secolo: 1) chi innesca un processo difficilmente è in grado di controllarne gli sviluppi, ovvero un numero variabile di “attori opportunisti” è in grado di intervenire e dirottarlo a proprio favore; 2) stiamo assistendo a una specie di “principio di sussidiarietà” applicato ai conflitti, per cui gli attori locali pesano maggiormente di quelli regionali e il ruolo delle grandi potenze più o meno globali è sempre più difficile da esercitare. Ma procediamo con ordine, partendo dal fronte degli sconfitti.
La Russia ha preso atto di non potersi permettere il contemporaneo coinvolgimento su due fronti di guerra, neppure se il secondo è costituito da attori non convenzionali non dotati di sistemi d’arma complessi. Ha abbandonato Assad al suo destino perché non poteva fare altrimenti. In tal modo ha buttato al vento quasi 12 anni di coinvolgimento diretto in Siria e il suo ritorno in medio oriente. Oggettivamente vede ulteriormente ridimensionato il proprio ruolo globale (che si conferma un’aspirazione velleitaria) mentre è confermato il declassamento a potenza regionale superarmata e priva di scrupoli. La perdita della Siria implica anche una ridefinizione del suo rapporto con l’Iran, che si interrogherà su quanto possa contare su un attivo sostegno russo in caso di guai maggiori. Vladimir Putin spera di poter conservare le basi navali di Latakia e Tartus, ma la cosa è tutt’altro che scontata. Molto dipenderà dall’evoluzione della vicenda siriana. Al momento gli ex ribelli sembrano non minacciarle, probabilmente su indicazione turca, ma non è detto che le cose continuino così (si pensi alla rivoluzione cubana) e, come la vicenda di Guantanamo insegna, basi navali assediate hanno poca o nulla capacità di proiezione strategica (tanto più se collocate molto lontane dalla madrepatria).
L’Iran assiste al tramonto della “mezzaluna sciita”, con il deciso ridimensionamento di Hezbollah e il crollo del regime siriano che ne rappresentava il retroterra e la principale via di rifornimento. Rimane l’Iraq, la cui fedeltà è molto più discutibile, e dall’altro lato della “tenaglia”, restano gli houthi, che proprio per questo potrebbero essere il prossimo obiettivo designato di un’azione che vedesse un diretto intervento saudita appoggiato dagli anglo-americani e da Israele. In ogni caso il regime si ritroverà sempre più sospinto a perseguire con forza la via dello sviluppo della bomba nucleare, un’opzione però pericolosissima. D’altronde questa rappresenterebbe la scelta della disperazione e non più quella del coronamento di un’influenza regionale in ascesa da 25 anni, e questo clamoroso fallimento potrebbe avere ripercussioni sulla stabilità de regime. Hezbollah perde qualsiasi profondità strategica: fuori dal sud del Libano, fuori dalla Bekaa, senza più retroterra logistico siriano. Potrebbe dover fronteggiare la voglia degli altri attori politici libanesi cristiani e sunniti di regolare i conti col partito-milizia sciita e questo potrebbe innescare ulteriore instabilità politica nel paese dei cedri.
La Turchia di Erdogan è la trionfatrice del momento. Ha patrocinato con successo la formazione più importante tra quelle ribelli, ha schiantato in dieci giorni il regime siriano, si candida a protettrice della nuova Siria, se in quest’ultima non prevarranno tendenze jihadiste internazionaliste (per ora improbabile). Potrebbe persino ergersi a garante delle basi russe. Quest’ultimo aspetto le assicurerebbe anche quel ruolo di cerniera politica tra l’Europa orientale e il medio oriente che già occupa geograficamente. Erdogan diventa anche il solo possibile leader di riferimento per i palestinesi, una prospettiva di cui anche i sauditi dovranno tenere maggior conto. L’attuazione degli Accordi di Abramo senza un coinvolgimento della Turchia e il rispetto dei diritti dei palestinesi diventa molto più aleatoria. Ma Erdogan potrebbe anche lasciar scorrere le cose affinché per la Russia diventi impossibile continuare a mantenere le sue basi siriane e candidarsi a sostituire Mosca: per la prima volta dalla caduta dell’Impero ottomano, la Turchia tornerebbe ad avere una posizione navale fuori dagli Stretti, molto più importante di quelle bandierine che attualmente ha in Libia e a Gibuti.
La devastazione della mezzaluna sciita premia Israele. La caduta della Siria segna un concreto e irreversibile cambiamento della regione che allontana la prossimità della minaccia iraniana dai suoi confini e rinforza il successo su Hezbollah, mentre l’umiliazione dell’Iran rende la vita ancora più complicata per Hamas. Certo, corre il rischio di confinare con una nuova repubblica islamica, ma si tratta di una male minore. Il rafforzarsi del ruolo turco nell’area non può farle piacere, ma sono altre le cose che più deve temere. Dell’opzione nucleare iraniana abbiamo già detto, il possibile effetto contagio su Giordania ed Egitto, da un lato, e l’aprirsi di una guerra civile in Libano rappresentano gli altri potenziali sviluppi negativi. Delle ricadute sugli Accordi di Abramo abbiamo già parlato.
Ci sono infine gli Stati Uniti. Il ridimensionamento della Russia è sicuramente visto con favore. Sarebbe stato più auspicabile per Washington che Mosca si fosse lasciata coinvolgere e logorare nella difesa del regime, ma Putin non ci è cascato. Mosca rimarrà quindi più intransigente sull’Ucraina? Probabile, ma dovrà comunque fare i conti con l’oggettivo ridimensionamento della sua potenza globale e con il crescere del ruolo di Erdogan. E su questo Donald Trump potrebbe fare leva: un’ipotesi di grande trattativa tra Trump, Putin ed Erdogan è da esplorare. In ogni caso si conferma quella che potremmo definire una specie di “dottrina Trump”: l’America guadagna di più quando non interviene e lascia fare rispetto a quando prova ad agire in prima persona. E l’Europa? Beh, più che altro resta a guardare, consapevole che è innanzitutto in Ucraina che si gioca la partita della sopravvivenza politica del suo futuro. Che da una tale consapevolezza discendano scelte coerenti, coraggiose e razionali è però un fatto per nulla scontato.