La mostra a Palazzo Esposizioni, metafisica, spirituale, mistica. Non una visione solitaria, ma l’esperienza di stare dentro all’opera. Colloquio con un artista dallo sguardo luminoso
Francesco Clemente mi è sempre piaciuto come artista perché aveva l’orecchino. Anzi due, uno per orecchio. E poi perché negli anni 70 era andato prima in Afghanistan con l’amico e artista Alighiero Boetti, poi in India a studiare la vita spirituale e le divinità indù alla Società teosofica di Madras. E infine perché si era stabilito a New York dove frequentava gente come Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat e Allen Ginsberg. Una specie di rockstar con la saggezza di un mistico, un pittore esposto nei musei più importanti del mondo, capace di guardare gli affreschi di Tiepolo ascoltando Jimi Hendrix, di essere testimonial per la casa di moda Commes des Garcons e attore per Gus Van Sant (recita la piccola parte dell’ipnotista accanto a Matt Damon in “Will Hunting – Genio ribelle”). Un artista totale, acclamato da pubblico e critica eppure così enigmatico, camaleontico, perennemente in movimento.
Dopo una vita da giramondo, a settantadue anni torna oggi a Roma con “Anima nomade”, una maestosa mostra a Palazzo Esposizioni curata da Bartolomeo Pietromarchi, la più grande personale mai realizzata in Italia per numero e importanza delle opere esposte.
Animo inquieto, affamato da sempre di bellezza e spiritualità, poesia e sesso, religione ed erotismo, Clemente si accampa letteralmente nelle imponenti sale del museo romano con sei straordinarie Tents, le tende realizzate dal 2013 e mai esposte (tutte) insieme in Italia, più dodici Bandiere e gli Oceani di storie, il ciclo di wall painting disegnati direttamente sui muri del palazzo e che, in puro nomadismo artistico e personale, verranno cancellati alla fine della mostra, il 30 marzo 2025. Esattamente come un mandala indiano, che appena è completato si cancella, dopo aver vissuto pienamente l’esperienza di “Anima nomade” l’opera di Francesco Clemente si dissolverà e andrà a dimorare all’interno di ognuno, diventando solo puro spirito.
“Da lui ci si aspettano i grandi quadri che l’hanno reso famoso nel corso del tempo, invece qui abbiamo uno dei punti più alti della sua carriera”, mi confessa con orgoglio il curatore Pietromarchi, “dove all’interno delle tende tocca tutti i suoi temi in totale libertà. Nuovo e libero”. La pittura di Clemente, dunque, passa dalla tela incorniciata a quella tesa da tiranti, pesi e pali, trasformandosi in luogo d’incontro insieme vulnerabile e resistente, una realtà morbida e solida. Non una visione solitaria di fronte a un’immagine, ma l’esperienza di essere all’interno dell’opera, camminando tra le opere. Il paesaggio estetico di “Anima nomade” è ricchissimo di riferimenti metafisici, spirituali e mistici, in modo da intrecciare figure umane, animali e divine con un approccio lirico ed emotivo, unicamente espresso dal suo senso del colore.
Arrivo a Roma per incontrarlo qualche giorno prima dell’inaugurazione, nelle febbrili ore in cui tutti i frammenti di questo mandala luminescente devono andare a comporre la complessa visione dell’artista. Mentre il curatore mi accompagna tra le imponenti sale mi giro per caso e lo vedo comparire magicamente alle mie spalle: Francesco Clemente è seduto a gambe incrociate all’interno di una tenda, col cappotto e l’inseparabile copricapo a zuccotto in testa. E i due piccoli orecchini, che gli donano un’aria trascendentale. Mi siedo di fronte a lui con una certa devozione, come ci si siede di fronte a un Maestro che si è studiato da lontano. Lui mi accoglie con un sorriso e uno sguardo vivido e luminoso. Nonostante la corporatura minuta si erge davanti a me come una quercia, o una montagna magica, placido e vigile allo stesso tempo.
Acconsente subito a essere registrato e filmato, ma prima si assicura che lo zuccotto sia perfettamente dritto e poi suggerisce di spostarci un poco, per evitare di essere ritratto con un grande cazzo dipinto sulla tela alle sue spalle. Mi promette che stasera, da casa, risponderà alle tante domande che gli ho inviato il giorno prima via email, gesto di grande apertura che trasforma questo incontro più in una chiacchierata con un amico che in un’intervista con uno degli ultimi grandi artisti del nostro tempo. Come solo i veri saggi sanno fare mi propone di dargli del tu con un sorriso, ma mi concede solo mezz’ora prima del pranzo. Tanto, ripete, mi risponderà in seguito con calma a tutto quello che voglio sapere. E io voglio sapere, prima di tutto, che cos’è questa “Anima nomade”, se celebrazione della vita o invito alla trasformazione: “Chi ci entrerà troverà tanta pittura, contrabbandata nelle pareti interne delle tende. Realizzate in India grazie alla forma di certi templi del sud o edifici senza tetto nel nord, le pareti verranno smontate e i murali effimeri verranno cancellati, rafforzando l’idea del transitorio, dell’impermanenza. Infine il corridoio accoglie le bandiere, delle specie di insegne di vari mondi già scomparsi, bandiere rosse, bandiere come i vestiti degli hippie degli anni 60, o citazioni da ‘La società dello spettacolo’ di Debord, un libro che mi è caro e che ha anticipato in maniera enigmatica ciò che si sta sciogliendo piano piano mentre entriamo in queste nuove strategie del capitalismo, queste strategie di dominio che somigliano sempre di più a quello che negli anni 70 sembrava un’utopia, o uno slancio dell’immaginazione”. Clemente alza la posta in gioco e mi rendo immediatamente conto che oggi non parleremo solo di pittura ma di qualcosa di più profondo, e che non riguarda solo l’arte. Lui stesso, da una decina di giorni, ha fisicamente dipinto a mano sulle enormi pareti di Palazzo Esposizioni: “Una volta stabilito il protocollo della pittura le immagini vengono alla superficie da sole, si manifestano per conto proprio. Ho eseguito i disegni a sanguigna (la tradizionale matita rosso opaco tipica del Rinascimento) con una linea sottile, e il team di amici pittori ha realizzato la campitura di queste onde sovrapposte. E si procede da un tono più chiaro a uno più scuro, per cinque strati di pittura. L’unica regola è: mai toccare la linea di contorno”. Lungo le pareti di una grande sala del museo una coppia di amanti probabilmente, o gli ultimi esseri umani sulla terra, si sono messi in salvo dal loro destino mortale su una piccola barchetta che viene trascinata da milioni di onde gentili. Potrebbero addirittura essere due angeli di Walter Benjamin che si allontanano dalle rovine di questo mondo sospinti dalle onde e dalla luce. E infine, nel corridoio delle Bandiere, sulla parete centrale, un gigantesco uovo svetta sullo sfondo: figura materna e protettrice al cui centro prende vita un fiore. Nella loro semplicità sono disegni accecanti, che rimarcano il legame della pittura di Clemente con la terra e la memoria e che inducono a riflettere sulla natura transitoria dell’arte. Gli dico che non vorrei essere presente quando gli operai dovranno cancellare questo immaginario mare, simbolo delle sue numerose geografie esistenziali. Lui non si scompone, indisturbato come quell’oceano in movimento perpetuo che lo accompagna da una vita e che lui ha riproposto sulle pareti.
Nel 1970 Francesco Clemente si trasferisce diciottenne da Napoli a Roma per studiare Architettura, cosa che non farà mai perché incontra Cy Twombly, Luigi Ontani e soprattutto Alighiero Boetti, che lo avvicinano all’arte. Della Capitale un giorno ha detto che “ogni mattina ti svegli e devi ricominciare da capo, come se non fosse mai successo niente”. Boetti arrivava dall’austera Torino, l’esatto contrario della caotica Napoli, e lo prende in giro dicendogli che chi va a sud si allontana dall’ordine, dall’ambizione e dal potere, e chi va a nord cerca proprio l’ambizione, l’ordine e il potere. Le rotte dei due artisti si mostrano simmetriche e complementari, e dopo la prima personale del ‘71 alla Galleria di Valle Giulia di Roma i due partono insieme per l’Afghanistan. Da lì Clemente prosegue da solo per l’India, come dice lui nel bel catalogo della mostra pubblicato da Electa, “osservandola attraverso gli occhi delle lettere di Rilke al giovane poeta. C’è una pagina in cui Rilke scrive al poeta di come sia fortunato a lavorare in un ufficio postale e non avere una professione artistica. In India quando andavo negli uffici postali a fare le telefonate collect all’Italia, continuavo a incontrare persone piene di poesia ma completamente senza ambizione artistica. Per loro la vita stessa era una forma di poesia”. Lo studio della cultura, della tradizione e dell’iconografia indiana e orientale diventano nutrimento per la sua pittura, che si arricchisce di riferimenti iconografici complessi. In Italia sono gli anni di piombo e quelli della sua generazione che non sono risucchiati nella spirale di violenza vengono attratti dai paradisi artificiali proprio dell’Oriente. Clemente fugge dalla Storia e trova rifugio nella Geografia: vive molti anni nel sud, a Madras, oggi Chennai, dove studia Krishnamurti e il suo celebre messaggio “la verità è una terra senza sentieri”. Lì la sua pittura trova la sua vocazione: “Sentivo un rifiuto verso la gerarchia, l’autorità e i ruoli predefiniti. Mi sembrava che il modo in cui le persone si manifestavano nel mondo non fosse legato a ciò che dicevano ma piuttosto a come si posizionavano nel mondo stesso”, racconta citando anche la celebre lettura dell’epoca “A scuola dallo stregone” di Carlos Castaneda: “La prima istruzione che l’adepto riceve è quella di trovare il proprio posto nella stanza, capire dove deve stare. In qualche modo, credevo in questa possibilità di trovare un luogo che fosse esclusivamente mio, dal quale poter emettere una voce autentica”. L’Oriente dunque, visto non come altrove esotico ma come “una versione del contemporaneo altrettanto credibile quanto quella dei luoghi da cui provenivo”. Ed è proprio grazie al viaggio in India che il nomadismo spirituale e materiale di Clemente prende origine e continua tutt’ora, attraversando le città come fonte di nutrimento dell’anima.
“Apollinaire diceva che il futuro è nel naso”, mi sussurra aprendosi in un sorriso quando gli chiedo che suono avevano le sue città allora e oggi, “credo che quel futuro sia arrivato. Joseph Beuys pensava che l’olfatto fosse uno dei sensi che doveva essere ingaggiato dalla scultura. Di Napoli si può dire tutto e niente, ovviamente. Meglio lasciarla ai forestieri che la invadono ottimisticamente. Quando si pensa a Roma si pensa a Rilke che dice che le pietre non sono nostre, ma io dissento da questa citazione, anche se molto seducente, perché dal momento in cui penso che tutto quello che ci circonda è vivo, anche le pietre di Roma sono vive. A pochi metri da casa mia a New York passa lo stesso parallelo di Napoli, quindi l’angolo della luce è lo stesso della mia città natale. E New York, che tutti amano amare o odiare, ha il pregio e difetto di essere una città viva. Una città dove incontri per strada i tuoi eroi, i tuoi nemici. E’ come una città del rinascimento dove non sai mai che cosa ti succederà. Non è una città statica, è generosissima e anche spietata, tutte cose che a me piacciono. L’India invece è l’abisso…”, si ferma un attimo, sospira, come se fosse l’India a parlare attraverso di lui, “continua a invitarti ma non si sa dove ti sta invitando. Dunque continui ad avanzare verso questo invito che non si esaurisce mai”.
La New York che accoglie Clemente nel 1980 è quella delle contaminazioni fra le arti. Il suo nomadismo artistico consolidato in India gli permette con facilità di dialogare con Andy Warhol e John Lurie (il leader del gruppo fake-jazz Lounge Lizards), con Jean-Michel Basquiat e il pittore e regista Julian Schnabel (che nel 1996 esordisce alla regia proprio con “Basquiat”, dedicato all’artista amico e rivale), con il poeta Allen Ginsberg e Keith Haring. Nell’84 il collezionista svizzero Bruno Bischofberger gli propone un grande lavoro a tre proprio con Warhol e Basquiat. Nei suoi bellissimi “Diari” Fernanda Pivano, che a New York era molto amata e rispettata da artisti e musicisti, scrive che Clemente “stava dando un nuovo esempio della sua arte magica, allusiva, vagamente simbolista, frutto di dieci anni di esoterismo praticato in India, ma anche di un suo esoterismo di origine mediterranea”. Sono anni febbrili per la Grande Mela, fa un po’ impressione rivedere le foto dell’epoca e lo sguardo stralunato del pittore napoletano al centro del mondo. Gli chiedo se quegli amici dell’epoca, molti dei quali morti tragicamente, gli sono mai apparsi in sogno. Lui, impassibile, ripesca dalla memoria ricordi che sembrano lontani: “Credo che il sogno appartenga a una visione materialista del mondo e io non ho una visione materialista. Io credo nelle coincidenze, in una fondamentale armonia e sincronicità degli eventi, che è un punto di vista che mi accomuna di più all’induismo, a tutte quelle visioni che non vogliono chiuderci in una spirale inesorabile di causa ed effetto. E quindi sono anche estraneo a tutto quello che ci viene proposto adesso in termini di intelligenza artificiale e queste storielle qui. Mi sembrano molto banali. E sì, ho sognato alcune persone che mi hanno segnato. Poco dopo la sua morte ho sognato Andy Warhol, e nel mio sogno si piegava in due in preda a un eccesso di riso, e solo allora mi sono reso conto che Andy Warhol non rideva mai. Non l’avevo mai visto ridere. Mai. Ha riso solo dopo che il gioco si è concluso”.
Gli amici artisti sono spesso ritratti negli acquerelli e nei disegni che Clemente realizza in modo vivido e personale, ma è negli autoritratti che la forma del suo Io sorprende. Per lui l’autoritratto non è una celebrazione dell’Io ma una discontinuità dell’Io. Gli chiedo che forma assume ora il suo Io, e quante volte è cambiato. “La coscienza è la continuità del discontinuo, diceva l’insegnante tibetano Vajrayana Chögyam Trungpa, che era anche insegnante di Allen Ginsberg, e io sono attratto da quest’idea della discontinuità, della frammentarietà, della contaminazione. Non condivido affatto le preoccupazioni correnti a proposito della purezza di qualunque genere, culturale, etnica. Sono veramente dei pensieri da incubo per me. Mentre invece mi interessa molto, parlando di discontinuità, sapere che cosa succede in quell’attimo in cui siamo né di qua né di là. E da quella realtà che sarebbe, nella tradizione tibetana, il Bardo, cioè il tempo tra una vita e l’altra. E in quell’interruzione, forse, si può trovare qualcosa. Magari”.
La tenda in mostra più sorprendente, in questo senso, è proprio la Tenda Museo, dove il suo Io camaleontico sfida la concezione dell’autoritratto rivelando molteplici visioni di sé e dove, per dirla con il suo amico Salman Rushdie, Clemente è “una metamorfosi per eccellenza – attore, clown, maschera, avatar – e, scivoloso come il leggendario Vecchio del Mare, si contorce come un’ombra”. Tra le pareti/tele di questa tenda l’artista fronteggia l’agghiacciante simmetria di una tigre, cattura un pesce fuori dalla cornice, si sporge lui stesso fuori dalle cornici/specchio diventando altro da sé.
All’inizio degli anni 80 nel continuo andirivieni tra New York e l’India fonda la piccola casa editrice Hanuman Books insieme all’amico scrittore ed editore Raymond Foye. L’idea era quella di creare dei piccoli libretti di 11×7 centimetri, modellati sui libri di preghiera del Ramakrishnan ashram, con scritti inediti degli autori più amati, da portare sempre con sé. Affidati a una stamperia di Madras, dove i testi venivano composti a mano in Monotype Times Roman, i libretti venivano poi rispediti a New York presso l’ufficio nel celebre Chelsea Hotel, l’albergo bohémien dove risiedevano, tra pazzi e squattrinati di mezzo mondo, anche Bob Dylan, Janis Joplin, Patti Smith, Leonard Cohen, Dylan Thomas e Andy Warhol. Anche questi ricordi arrivano da lontano ma gli occhi di Clemente sembrano illuminarsi di luce nuova mentre mi racconta: “Raymond mi ha presentato Allen Ginsberg e con lui ho realizzato anche dei manoscritti: Allen e Raymond avevano entrambi la passione per William Blake, Raymond ha scritto con molta cura e pignoleria i testi delle poesie che volevamo illustrare e io li ho circondati e inondati di pittura. Ginsberg è la persona che mi manca di più in questo momento perché aveva veramente compassione. Possedeva quello che per i buddisti tibetani si chiama skillful means, i mezzi adatti, e riusciva sempre a ribaltare qualunque situazione. Se si trovava in una situazione o sgradevole o non corretta, o di aggressività e mediocrità, riusciva sempre a trovare una chiave per uscirne e creare una situazione diversa”.
Gli Hanuman Books costavano appena 5 dollari l’uno, per la bellezza dell’oggetto in sé e la cura per i ricercatissimi testi (Picabia, Michaux, de Kooning, Sandro Penna, Dylan, Kerouac, William Burroughs) durarono fino ai primi anni 90: oggi fanno la felicità di Giampiero Mughini, che ne possiede l’intera collezione, e di altri amanti del bello, disposti a pagarli svariate centinaia di dollari l’uno.
E William Burroughs, gli chiedo, lo scrittore maledetto autore del rivoluzionario romanzo “Il pasto nudo”, che tipo era? Clemente ridacchia: “Somiglia a una medicina omeopatica. Se guardiamo all’America come a una entità veramente diabolica lui, diventando diabolico, in qualche modo scongiurava il mondo da cui proveniva. E anche lì ne ribaltava il significato. Però non mi piaceva stare in sua compagnia, aveva addosso qualcosa di veramente sinistro. Anche se quell’essere sinistro lo puoi gestire solo se dentro hai moltissimo amore, se hai perdonato tutto e tutti puoi essere così”.
Qualche anno fa, in un incontro pubblico alla libreria Strand di New York, lo scrittore indiano Salman Rushdie l’aveva preso in giro dicendo che aveva la brutta abitudine di dare risposte brevi. Ma ogni frase pronunciata da quest’uomo, ogni pensiero di questo artista, squarcia il velo della profezia, e più lo sento parlare più mi viene da chiedergli cose che con la pittura non c’entrano nulla. O forse no. Oso ancora di più, chiedendogli quanti Clemente contiene il suo Io, citando il contrabbassista jazz Charles Mingus che, nella sua autobiografia, scrisse “io sono tre”. E tu, quanti Clemente sei?
Lui mi osserva immobile, esala un fiato sottile e inspira per dodici secondi. Li conto e mi sembrano un’eternità. Poi scoppia a ridere, sembra divertito: “Non bisogna fare dichiarazioni che non si possano sostenere con un’esperienza personale solida. Io rimango un artista, non un guru”, fa un’altra pausa, poi riprende: “Ci sono abbastanza falsi profeti in questo momento”.
Non so quanto tempo sia passato, la mezz’ora concessami sembra dilatata all’infinito, e percepisco i suoi primi segni di stanchezza. Gli racconto di una mia intervista di anni fa con Jeff Bridges, il mitico “Drugo” Lebowski, in cui siamo finiti a parlare di meditazione e di vita dopo la morte. E’ anche questa, a suo modo, transitorietà, nomadismo dell’anima? Wittgenstein diceva che l’anima è il corpo. Che idea si è fatta lui, dove migrerà la nostra anima? Francesco stavolta ride di gusto: “Queste sono domande scorrette… io sono un devoto di Ramana Maharshi, un asceta indiano degli anni 50. Jung lo andò a trovare e ne parla anche Cartier-Bresson, che lo visitò e lo fotografò. Da adolescente Ramana Maharshi aveva avuto un’esperienza vivida della propria mortalità, cosa che è accaduta anche a me. Non un’esperienza di tipo intellettuale ma proprio una visione irresistibile della mortalità… quando Ramana ha avuto quell’esperienza ha pensato ‘morirò’, e poi dopo averlo pensato si è chiesto ‘cos’è che morirà? Chi è che morirà?’. E da lì ha iniziato una riflessione sulla sua natura che lo ha portato a rinunciare a una serie di cose inutili e attaccarsi a qualcosa di utile. Con risultati opposti a quelli di Wittgenstein, Ramana diceva che attraversare la vita identificandosi col proprio corpo è come voler attraversare un fiume sul dorso di un coccodrillo”. Ride ancora, e capisco che siamo davvero arrivati alla fine. “Chiudiamo”, fa lui. Guardo l’ora ed è tardissimo. Gli chiedo se, quando tornerà dal pranzo, posso fargli qualche foto, ma il pranzo è saltato, mi dice. Mi sento in colpa e, per la prima volta, fa capolino nella sua voce tenue un lieve accento romano: “No, non sentirti in colpa, ce ne saranno altri. Siamo a Roma”. Poi si guarda intorno, ammira il tetto della tenda retto dal palo centrale: “Queste tende funzionano. Hanno il senso di raccoglimento”, e scoppia a ridere soddisfatto. “Secondo me hai abbastanza cose. C’è di tutto e di più”, dice indicando la telecamera.
Nonostante sia a digiuno da stamattina e gli abbia fatto saltare il pranzo è lui che mi conduce verso il grande corridoio delle tende e si mette in posa con le spalle al muro contro il wall drawing per le mie Polaroid.
“E’ dritto?”, mi chiede aggiustandosi lo zuccotto.
“Drittissimo”, lo rassicuro scattando a ripetizione.
Quando ci salutiamo scompare con la stessa velocità con cui è apparso, come un’ombra. Mentre richiudo la borsa, alle mie spalle il Palazzo Esposizioni si rianima: gli operai spostano scale e luci, i fotografi si rimettono al lavoro, le ragazze dell’ufficio stampa riprendono a telefonare. Sotto un’altra tenda incrocio anche la figlia maggiore Chiara Clemente, un’affermata regista soprattutto di film su artisti, che ha seguito il padre a Roma per filmare ogni momento della costruzione di questa mostra straordinaria. Ci sediamo nuovamente per fare due chiacchiere e le chiedo cosa ha trovato di sé in questo viaggio visionario: “Ci sono tanti sogni e tante immagini… ogni persona che anche non conosce il lavoro di mio padre può trovare qualcosa di sé, qui. Io questa cosa l’ho filmata ora ma anche in passato in un’altra mostra, eppure scopro sempre qualcosa di nuovo”. Avere padri “ingombranti” a volte è difficile per i figli, ma lei, fortunatamente, è testimone del contrario, dopo aver seguito la madre Alba e gli altri tre fratelli in giro per il mondo: “A vent’anni mi hanno chiesto di fare un film su mio padre, l’ho filmato in Nuovo Messico, New York, Roma. Però ero ancora ragazzina e c’erano momenti in cui lui era il regista e io la protagonista. Adesso, invece, dopo tutti questi anni trovo che mio padre abbia un grande rispetto del mio lavoro, che è una cosa molto bella”. Chiara ha invitato i suoi amici romani a vedere “Anima nomade” e a portare con loro i figli: “Per i bambini è una cosa magica. Puoi stare dentro l’arte, e non è sempre così. Siamo molto abituati a starne fuori e questo crea una barriera. Questa mostra può veramente portare le persone dentro l’arte”.