Yaroslav Trofimov ci spiega come decifrare quel che accade ora che il regime è crollato: la variabile più instabile è la Turchia vendicativa. Putin accoglie il dittatore amico a Mosca, ma non lo ha salvato in Siria
La gioia dei siriani ha sospeso, almeno per un giorno, almeno per questo giorno, preoccupazioni e ansie per quel che verrà ora che il regime di Bashar el Assad è crollato, il dittatore ha lasciato Damasco, la repressione che dura dal marzo del 2011 è finita. Da quando è iniziata, dieci giorni fa, l’avanzata spettacolare e fulminea degli islamisti di Hayat Tahrir al Sham (Hts) con la conquista di Aleppo, si vedono i siriani che esultano, i caroselli sui motorini, le lacrime incredule, la possibilità di muoversi, di festeggiare, di correre sventolando le bandiere: liberi. Nel primo annuncio alla tv siriana dopo che Assad ha lasciato Damasco, il conduttore ha letto il primo comunicato della Siria liberata: “A chi ha scommesso su di noi, a chi non l’ha fatto, a chi ha pensato che fossimo finiti, annunciamo la vittoria della grande rivoluzione siriana, dopo tredici anni di pazienza e sacrificio”. Prima delle analisi e le reazioni, c’è questo: la gioia di un popolo vessato dalla brutalità – bombe, bombe chiodate, armi chimiche, esecuzioni di massa, assedi, fame, torture – che oggi urla “siamo liberi”.
Al Doha Forum che si è tenuto nel fine settimana allo Sheraton della capitale qatariota, l’impressione generale è “lo choc”, dice Yaroslav Trofimov, capo dei corrispondenti del Wall Street Journal, che in questi giorni ha incontrato i leader di tutto il mondo, i russi, gli iraniani, i turchi, le delegazioni dei paesi del Golfo che seguivano i fatti siriani ognuno con le proprie apprensioni, “nessuno se l’aspettava, nemmeno i ribelli stessi, si pensava che sarebbero arrivati a Homs, ma insomma la caduta di Damasco e del regime davvero non era stata prevista”. Trofimov è nato a Kyiv, ha lavorato in molte parti del mondo, ha pubblicato due libri nell’ultimo anno, uno sulla guerra russa in Ucraina, “Our enemies will vanish”, e un romanzo, “No country for love” (che sarà pubblicato in Italia a febbraio dalla Nave di Teseo), è una guida preziosa e vivace per unire i puntini delle crisi in corso, e dargli un senso. Partiamo dallo choc degli alleati di Assad e pure dei suoi nemici, lo mettiamo a confronto con i siriani sui tetti dei camioncini che festeggiano, stupore e felicità si mischiano: Trofimov ha la voce calma di chi racconta un giorno epocale sapendo che quando accade l’inimmaginabile poi tutto diventa possibile. “L’esercito del regime siriano era molto debole, si sapeva da tempo che non era in grado di combattere da solo – dice – ma i suoi sostenitori storici non sono più quelli che erano soltanto poco tempo fa. Hezbollah ormai è mezzo morto, Israele l’ha decapitato e ha ammazzato moltissimi combattenti, ora il Partito di Dio si è ripiegato in Libano perché ha la guerra in casa; i russi non hanno più la potenza aerea che avevano in Siria perché hanno avuto bisogno degli aerei contro gli ucraini, dove ne hanno persi 150 in questi anni; tutta la Wagner, che aveva migliaia di soldati in Siria, è morta in Ucraina e i suoi leader sono stati uccisi da Vladimir Putin; gli iraniani hanno perso tante delle loro capacità nel conflitto contro Israele. Nel momento in cui Assad si è ritrovato a combattere da solo, ha perso”. Una sconfitta chiama l’altra, “è un domino”, di segno contrario rispetto a quello che si aspettava Mosca, sempre tronfia della sua forza e di quella dei suoi alleati: ce la sbatte in faccia ogni giorno, mentre evoca la guerra nucleare, perché sa che così l’occidente prende paura, tentenna, si divide. Ma poi succede che un dittatore non è più forte, e “quando la gente si accorge che il regime sta perdendo, nessuno vuole andare a morire per lui”. Men che meno per un regime come quello siriano che ha mostrato una costante determinazione a straziare il popolo che governava. Trofimov ricorda l’Afghanistan del 2021, quando le truppe americane si ritirarono, i talebani conquistarono alcune città e poi ci fu “il domino fino a Kabul: la sera si diceva che ci sarebbe stata una grande battaglia e a mezzogiorno del giorno dopo, il presidente aveva lasciato il paese e i talebani erano nel centro della capitale: funziona così”.
In questi giorni di avanzata degli islamisti, ci siamo chiesti ogni minuto se russi e iraniani sarebbero riusciti a salvare Assad: non hanno potuto o non hanno voluto? “Hezbollah non ha potuto, quasi tutto il suo comando è stato ucciso dagli israeliani, così come gran parte dei suoi miliziani: il Partito di Dio deve trovare il modo di sopravvivere in Libano, non può andare in Siria a combattere perché ha già perso una guerra in casa. I russi non hanno la capacità, non hanno la fanteria, anche in Ucraina hanno bisogno dell’aiuto esterno, e gli iraniani pure, perché dopo il conflitto con Israele hanno paura: sanno che se mandano le loro milizie oltre il deserto dall’Iraq, Israele li va a bombardare come ha già fatto in passato”. Le milizie sciite non sono arrivate dall’Iraq in numero necessario anche perché il leader di Hts, Abu Muhammad al Julani, “che ora vuole farsi chiamare con il suo nome, Ahmed al Sharaa, e non con quello da combattimento, ha fatto un videomessaggio per il premier iracheno, Mohammed al Sudani, dicendogli: non venite qui perché altrimenti sarà un inferno per voi e per noi. Gli iracheni hanno fatto velocemente i calcoli, poiché il regime di Assad era prossimo al crollo: la loro priorità è che i siriani non vadano nel loro paese a creare problemi. Non dimentichiamoci che al Julani, che in questo momento è uno degli uomini più potenti in Siria, ha iniziato la sua carriera andando in Iraq a combattere contro gli americani e poi contro il governo sciita iracheno. Se ora dice: voi state a casa vostra e io sto a casa mia, conviene anche all’Iraq dargli retta”.
Al Julani, con i suoi messaggi ecumenici di rispetto di tutti i siriani di ogni religione, di lotta ad Assad e soltanto a lui, ha – secondo Trofimov – come modello i talebani, “che quando sono entrati a Kabul hanno promesso di non fare esecuzioni e vendette e, tutto sommato, la loro riconquista dell’Afghanistan all’inizio è stata pacifica: arrivarono nella capitale afghana che li aveva combattuti per decenni e non uccisero nessuno, cioè non fecero quello che avevano fatto la prima volta a Kabul, negli anni Novanta. Al Julani fa lo stesso, promette di rispettare i cristiani, i drusi, anche gli alawiti come Assad, perché sa che la Siria è un paese multietnico e multireligioso: vuole essere accettato”. Non è il momento della vendetta, questo, o almeno non per chi ha appena liberato il paese dal regime, ma questo non vale per tutti: “L’elemento di instabilità più grave ora, secondo me, è la Turchia, perché vuole la sua vendetta contro i curdi. La milizia più vicina ai turchi, il Syrian National Army (Sna), non ha combattuto contro Assad in queste settimane, ma contro i curdi, che sono le Syrian Democratic Forces (Sdf). Le Sdf avevano un’enclave ad Aleppo, e quando al Julani è arrivato in città ha permesso loro di lasciare la città con tutte le loro armi: hanno fatto un accordo, perché Hts ora non vuole combattere internamente con altre forze presenti in Siria”. Lo stesso vale con i russi, che hanno la loro base a Tartus, sul Mediterraneo: “Bisognerà vedere che cosa succede con la base e con tutti i mezzi russi presenti – dice Trofimov – Non è chiaro che cosa sta accadendo lì: i siriani hanno abbattuto le statue di Assad, ma per il momento non c’è stato altro. Non è chiaro chi abbia il potere lì, ma possiamo già notare una differenza tra russi e iraniani: i siriani hanno saccheggiato l’ambasciata iraniana a Damasco, però non hanno toccato le sedi russe e dicono di volere relazioni con la Russia. Il trattato per Tartus dura 49 anni e dà un diritto sovrano ai russi in questa base, e di certo la Russia spera di poterla mantenere”. Ora ci sono due cose cui badare: “Se ci sarà un conflitto tra turchi e curdi: l’Sna sembra piuttosto aggressivo, bisognerà vedere se vuole proseguire o fermarsi un po’. La seconda cosa riguarda la capacità dei ribelli di mantenere il controllo: le forze che hanno preso Damasco non sono quelle di al Julani e non prendono ordini da lui. Arrivano dal sud, sono gli ex ribelli della prima fase della rivoluzione contro Assad, molti sono filosauditi, magari dal punto di vista religioso più moderati, ma non sono ben organizzati”. La prima prova di forza è controllo è stata fatta da al Julani, con un discorso nella moschea di Damasco, in nome e in difesa del popolo siriano. “E’ necessario ora vedere – dice Trofimov – come si assestano gli equilibri tra le varie forze”.
Vale anche per quel che accade fuori dalla Siria. Trofimov racconta la guerra russa contro gli ucraini nei suoi dettagli strazianti, ma con cadenza quasi settimanale sul Wall Street Journal alza gli occhi sulla violenza globale russa e spiega ciò che accade nelle alleanze, nei rapporti di forza: “L’impatto della crisi siriana sull’Ucraina, dal punto di vista militare e sul terreno, non c’è: per Mosca la battaglia più importante è quella contro gli ucraini, e questa prosegue”. Però c’è un messaggio potente per noi occidentali nel crollo del regime di Assad, che ha trovato con la sua famiglia asilo a Mosca: “Putin ha sempre detto che la Russia non abbandona i suoi alleati, a differenza degli americani: guardate l’Iraq, diceva, guardate l’Afghanistan, gli americani abbandonano sempre i loro alleati, lo faranno anche in Ucraina. Ora sappiamo che gli ucraini non sono stati abbandonati e che Putin ha abbandonato la Siria del suo alleato Assad”. Sappiamo anche, e questo andrebbe urlato proprio come i siriani gridano la loro liberazione, che non è vero che Putin è imbattibile: né lui né i suoi alleati.