Javier Milei, un anno di motosega

Lo chiamavano “El loco”, il pazzo, in pochi pensavano che avrebbe risanato l’Argentina. Eppure, attraverso un programma di libero mercato estremo, ci sta riuscendo. Lacrime e sangue, ma non ha perso il consenso. Che cosa dice all’Italia la grande sfida dell’underdog argentino. Un’indagine

Se Giorgia Meloni è l’underdog italiana, Javier Milei è l’underdog globale. In pochi immaginavano che questo eccentrico economista e polemista televisivo, fautore del libero mercato più estremo, avrebbe mai potuto vincere le elezioni in un paese statalista e corporativo come l’Argentina contro il partito-sistema peronista. Ancor meno pensavano che sarebbe riuscito ad attuare il suo programma economico: un aggiustamento fiscale senza precedenti nel mondo, almeno negli ultimi decenni, liberalizzazioni e privatizzazioni. Soprattutto nessuno avrebbe immaginato che, dopo averlo attuato, avrebbe mantenuto consensi così elevati. Secondo i sondaggi più recenti, Milei conserva gli stessi livelli di approvazione di quando è stato eletto (il 56 per cento): dopo un anno di governo ha un tasso di popolarità superiore a quello di tutti i suoi predecessori.

La stessa Meloni – che sabato accoglierà Milei, al suo secondo viaggio in Italia, come ospite d’onore di Atreju, la festa di Fratelli d’Italia – aveva mostrato una certa cautela nei confronti di questo anarcocapitalista argentino. Un po’ per la diversa formazione culturale: la destra sociale italiana non ha molto a che fare con la scuola austriaca di economia, anzi, per molti versi è più vicina alla tradizione di Juan Domingo Perón, che si era ispirato all’Italia fascista. Un po’ per il fatto che la sfida di Milei sembra davvero una missione impossibile, da un lato per la situazione disperata e dall’altro per il retaggio storico da paese irredimibile: l’Argentina ha fatto nove default, il numero più alto al mondo. Diceva Giulio Andreotti che “i pazzi si distinguono di due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato”. El loco, il pazzo, è appunto uno dei soprannomi di Milei: uno che crede di risanare l’Argentina. Pur mostrando quindi simpatia politica per il suo progetto, il 10 dicembre 2023, alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente, il governo italiano inviò a Buenos Aires la ministra dell’Università Anna Maria Bernini: non ci andò la premier né il ministro degli Esteri Antonio Tajani né l’altro vicepremier Matteo Salvini o un ministro di Fratelli d’Italia.



“Signori, questo modello ha fallito, ha fallito in tutto il mondo, ma ha fallito soprattutto nel nostro paese”, disse Milei in quel suo primo discorso da presidente, esponendo una situazione economica disastrosa: inflazione fuori controllo, deficit di bilancio, deficit commerciale, riserve nette negative, povertà in aumento ben oltre il 40 per cento. “Non esiste alcuna alternativa possibile all’ajuste. Non c’è nemmeno spazio per la discussione tra shock e gradualismo”. L’ajuste è l’aggiustamento fiscale, una correzione dei conti pari a 5 punti di pil, da attuare immediatamente. Nel primo mese di governo. Per fare un confronto, l’Italia sta facendo con il piano di rientro concordato con l’Unione europea una correzione di circa mezzo punto di pil (e c’è chi grida ai tagli selvaggi). L’aggiustamento di Milei è stato dieci volte superiore ed è stato fatto in un mese. A gennaio 2024 l’Argentina era già in surplus di bilancio, per la prima volta dopo 16 anni.



La cautela di Meloni non era ingiustificata. Avrebbe mai potuto funzionare la via democratica all’anarcocapitalismo in un paese come l’Argentina? Le riforme dei Chicago boys, ma senza i generali? Lo scenario più probabile, evocato e in una certa misura preparato dall’opposizione peronista, era di proteste massicce di piazza e blocchi stradali, fino alla fuga del presidente in elicottero, come accadde al radicale Fernando de la Rúa durante la crisi del 2001 che aveva aperto a un ventennio di governo quasi ininterrotto del peronismo dominato dalla famiglia Kirchner. Prima delle elezioni, a settembre 2023, l’Economist descriveva Milei come “un pericolo” per la democrazia: “Questo giornale sarebbe felice se il signor Milei inaugurasse una nuova èra di liberalismo in Argentina. Tuttavia, ciò sembra improbabile. Le sue politiche sono mal concepite. Lungi dal creare un consenso, farebbe fatica a governare. E se frustrato, temono alcuni argentini, potrebbe plausibilmente trasformarsi in un autoritario”. Pochi giorni fa, il settimanale britannico ha dedicato la copertina al presidente argentino elogiandone le “lezioni per il resto del mondo”: per come ha tagliato la spesa pubblica, liberalizzato l’economia e abbattuto l’inflazione, ma “forse la lezione più grande riguarda il coraggio e la coerenza. Che vi piacciano o no, le politiche del signor Milei si allineano tra loro, amplificandone l’effetto”.

Che gli osservatori esteri, il Fondo monetario e le agenzie di rating apprezzino un governo che rimette a posto i conti pubblici, ripulisce il bilancio disastrato della Banca centrale e riduce l’inflazione può non stupire, nonostante le stramberie del presidente e la diffidenza delle istituzioni internazionali per la sua ideologia libertaria. Ma che tutto questo sia apprezzato anche dalla popolazione, dopo mesi di tagli incisivi alla spesa pubblica, soprattutto in un paese abituato all’interventismo e all’assistenzialismo dello stato, è sorprendente. L’allineamento tra i favori dei mercati internazionali e degli elettori argentini era davvero impensabile. Com’è stato possibile? Parafrasando una frase nota, si può dire: “It’s the inflation, stupid!”.



L’eredità economica ricevuta in dote dal governo peronista era pesantissima. Recessione (-1,6 per cento del pil nel 2023), riserve negative record (-11 miliardi di dollari), saldo delle partite correnti negativo (-3,5 per cento), un accordo con l’Fmi da 44 miliardi di dollari impossibile da rispettare, povertà dilagante (oltre il 40 per cento), ma soprattutto l’inflazione più alta al mondo (211 per cento nel 2023) con una dinamica da iperinflazione (tasso mensile a novembre sopra al 12 per cento, che vuol dire quasi il 400 per cento annualizzato, e del 25,5 per cento a dicembre, che vuol dire il 1.500 per cento annualizzato). L’inflazione è il principale problema macroeconomico dell’Argentina, ma anche il principale problema microeconomico degli argentini nella loro vita quotidiana. Ed è il tema che è stato al centro della campagna elettorale di Milei: “Vamos a terminar con el cáncer de la inflación”. Pareggio di bilancio e fine dell’emissione monetaria, erano le promesse.

Se lo stile di Milei è certamente populista, simile a quello di Donald Trump da cui ha mutuato l’idea Maga (Make Argentina Great Again) e anche di Beppe Grillo da cui ha recepito la lotta contro “la casta”, non lo sono i contenuti: non ha promesso la reindustrializzazione a suon di dazi né il risanamento del bilancio pubblico tagliando auto blu e vitalizi. Ha indicato una traversata nel deserto: l’Argentina ritornerà prospera come nell’Ottocento quando era tra i paesi più ricchi al mondo, diceva Milei, ma prima ci sarà da soffrire. E così è stato. Il principale responsabile della politica di bilancio argentina è il ministro dell’Economia, Luis Caputo, che aveva già ricoperto quel ruolo con Mauricio Macri presidente e ha esperienza sui mercati internazionali (Jp Morgan e Deutsche Bank). Caputo è l’uomo del piano di risanamento, del pareggio di bilancio, della riduzione dell’inflazione e del riordino del sistema di cambi multipli. A dicembre, appena insediato, dopo un’obbligata e forte svalutazione, la rimozione di molti prezzi controllati e amministrati, l’inflazione è aumentata al 25,5 per cento mensile e la povertà è schizzata al 55 per cento. Contemporaneamente c’è stato un aggiustamento fiscale, la fase in cui ha funzionato a pieno regime la “motosega” sventolata in campagna elettorale: chiusura di ministeri e agenzie statali (“Afuera!”), taglio di oltre 30 mila dipendenti pubblici, sospensione delle opere pubbliche per un anno, riduzione dei sussidi per l’energia e i trasporti, taglio dei trasferimenti discrezionali alle province, riforma dei programmi di spesa sociale, aumento di alcune tasse.

Naturalmente la stretta fiscale ha avuto una forte ripercussione sull’attività economica, aggravando la recessione già in atto, con un pil che l’Fmi prevede in calo del 3,5 per cento nel 2024. Lo scenario peggiore, niente affatto improbabile, per il governo di Milei dopo una terapia shock del genere era di ritrovarsi a metà anno con un’economia in crisi, senza buone notizie da dare ai cittadini, con la popolarità a picco, i piqueteros nelle strade e senza margini di manovra nel Congresso, dove il suo partito, La Libertad Avanza, ha appena il 15 per cento dei seggi. Invece i risultati sono lusinghieri, migliori di ogni previsione non solo degli osservatori internazionali ma per certi versi dello stesso governo. E i sondaggi sono molto favorevoli in vista delle elezioni di mid term dell’anno prossimo.

L’inflazione è crollata dal picco del 25,5 per cento mensile di dicembre 2023 al 2,7 per cento di ottobre 2024, il dato più basso da tre anni. Su base annua, vuol dire passare dal 211 per cento nel 2023 al 118 per cento nel 2024 fino, secondo le proiezioni del Fmi, al 45 per cento nel 2025. Il dato è più impressionante se si considera l’inflazione all’ingrosso, che era al 54 per cento a dicembre 2023 ed è crollata all’1,2 per cento a ottobre, il dato più basso dal 2020. In realtà, le cose sembrano andare meglio delle previsioni del Fmi. Secondo l’ultimo report di JP Morgan, la recessione iniziata sotto il precedente governo a marzo 2023 è finita a settembre 2024 e ora si prevede “un sostenuto periodo di crescita”. Per la banca d’affari statunitense, il 2024 si chiuderà con una perdita del pil del 3 per cento (meglio del -3,8 per cento previsto dal governo e del -3,5 per cento previsto dal Fmi) e nel 2025 si registrerà una crescita del 5,2 per cento, che dovrebbe far recuperare due anni di recessione. L’inflazione secondo JP Morgan nel 2025 scenderà al 25 per cento, un dato vicino all’obiettivo del 18 per cento del governo Milei, e molto inferiore al 45 per cento previsto dal Fmi.


L’altro indice in forte miglioramento, indissolubilmente legato all’inflazione, è quello della povertà, il tema che è costato più critiche al governo Milei e il problema sociale più importante del paese. Dopo il picco sopra il 55 per cento nel primo trimestre del 2024, è in costante calo. I dati dell’Indec, l’istituto di statistica nazionale, sono semestrali e arrivano con un certo ritardo. Secondo l’ultimo aggiornamento, nel primo semestre dell’anno il tasso di povertà è stato del 52,9 per cento. Ma le analisi mensili, quasi in tempo reale, fatte con la stessa metodologia dell’Indec da parte di osservatori indipendenti mostrano un quadro in rapida evoluzione. Secondo il nowcast de pobreza dell’Università Torcuato di Tella, il tasso semestrale di povertà è sceso al 49 per cento nel periodo maggio-ottobre e al 46 per cento nel solo mese di ottobre. Secondo l’Observatorio de la deuda social dell’Università Cattolica Argentina, a ottobre la povertà è scesa al 44,6 per cento. E’ l’effetto combinato della discesa dell’inflazione e della riattivazione economica, che da diversi mesi sta facendo crescere i salari nominali più dell’aumento dei prezzi, soprattutto per i lavoratori irregolari che in Argentina sono tantissimi. I salari reali, almeno nel settore privato, sono quasi tornati al livello pre Milei. A fianco della chiusura del deficit fiscale, il governo Milei ha anche annullato il deficit quasi-fiscale: ha azzerato il finanziamento monetario del disavanzo da parte della Banca centrale e ne ha rafforzato l’indipendenza dal Tesoro. Sono state ricostruite le riserve internazionali. La bilancia commerciale è tornata in forte attivo, in parte per effetto di un aumento delle esportazioni ma soprattutto per un crollo delle importazioni. Così, in pochi mesi, l’Argentina è passata da un twin deficit a un twin surplus.



I risultati sono notevoli e “migliori del previsto”, come certifica l’Fmi, ma come ha fatto Milei a mantenere così elevati i consensi? La prima risposta, come detto, è l’inflazione. La tassa più devastante per l’economia, la più odiata dagli argentini, anche perché pesa di più sui poveri: vedere mese per mese che la crescita dei prezzi rallenta sistematicamente rispetto ai ritmi vertiginosi dell’anno passato trasmette l’idea che la cura, per quanto dura, stia funzionando. Un altro aspetto è la spesa sociale. Come segnala anche l’Fmi, Milei ha tagliato la spesa pubblica di circa il 30 per cento in termini reali, ma ha raddoppiato in termini reali alcuni sussidi universali e diretti come l’Asignación universal por hijo (simile al nostro Assegno unico per i figli) e la Tarjeta Alimentar (una sorta di social card); a fronte dell’abolizione dei tanti programmi assistenziali inefficienti e fonte di corruzione che venivano intermediati da sindacati e organizzazioni sociali.

Un fattore fondamentale del consenso di Milei, però, è strettamente politico. L’opposizione è in crisi profonda, lacerata dalle faide e senza credibilità. Gli scandali politici e di corruzione stanno travolgendo tutta la classe dirigente peronista. Il presidente uscente Alberto Fernández è sotto processo perché accusato dalla ex compagna di averla picchiata e indotta ad abortire, inoltre è accusato di corruzione sulla contrattazione di assicurazioni per il settore pubblico. L’ex presidente Cristina Kirchner, moglie dell’ex presidente Nestor e vera leader dell’opposizione, è stata appena condannata in appello a sei anni e all’ineleggibilità per un enorme caso di corruzione. Inoltre è a processo per il famigerato “Patto con l’Iran”, un accordo con il regime degli ayatollah per insabbiare l’attentato terroristico del 1994 alla comunità ebraica di Buenos Aires che fece 85 morti e 300 feriti, compiuto da Hezbollah su mandato di Teheran. Un importante ex ministro di Kirchner, Guillermo Moreno, è stato condannato a tre anni per aver manipolato al ribasso i dati sull’inflazione dell’Indec (l’Istat argentina). Ma sono numerose le inchieste per corruzione e malversazione anche nei confronti dei dirigenti sociali e sindacali per la gestione dei programmi di spesa assistenziale chiusi da Milei. Gli scandali giudiziari hanno delegittimato i movimenti e i piqueteros che si presumeva avrebbero paralizzato l’Argentina in risposta alle dure misure di austerity del governo. Ma oltre al mancato supporto popolare e al taglio del flusso finanziario che arrivava dalle casse statali, il governo è intervenuto attraverso la ministra della Sicurezza Patricia Bullrich con un protocollo anti picchetti che sanziona le manifestazioni non autorizzate e i blocchi stradali: i piqueteros che si temeva avrebbero paralizzato il paese sono praticamente scomparsi.



Assieme al bastone dell’austerità, Milei sta cercando di stimolare la crescita con le riforme. Il Terminator della burocrazia è il ministro della Desregulación, Federico Sturzenegger. Professore di Economia, studi negli Stati Uniti al Mit, già governatore della Banca centrale argentina dal 2015 al 2018, Sturzenegger non è alla prima esperienza di governo: era stato brevemente segretario per la politica economica, sotto il presidente Fernando de la Rúa nel 2001. Proprio in quell’occasione aveva appreso una lezione fondamentale, che ha raccontato in un podcast a Luigi Zingales: dopo una lunghissima discussione con il ministro dell’Economia Domingo Cavallo e altri colleghi su due alternative per affrontare una certa questione, si era arrivati alla scelta dell’opzione migliore. Sennonché la mattina successiva il ministro aveva firmato un provvedimento di segno opposto, giustificandosi così: “Mi hai fornito ottimi argomenti, ma stamattina il tuo collega mi ha portato una bozza del decreto da firmare”. Sturzenegger capì che non bastano le idee: bisogna renderle operabili, “avere le carte”. Così, molti anni dopo, anche in seguito al fallimento riformista del presidente moderato Mauricio Macri, quando ancora l’ascesa di Milei non era in vista, aveva creato in università un gruppo di lavoro multidisciplinare per elaborare una proposta di revisione della mastodontica legislazione argentina.

Gli anni di lavoro produssero un piano di semplificazione consegnato alla candidata del centrodestra Patricia Bullrich, che però venne sconfitta al primo turno e poi si alleò con Milei al ballottaggio. Così, dopo la vittoria, Sturzenegger consegnò il piano a Milei che gli chiese di realizzarlo. La filosofia di Sturzenegger è sintetizzata da un motto che ribalta una massima classica del peronismo attribuita a Evita Perón: “Dove c’è un bisogno, nasce un diritto” diceva la moglie del caudillo. “Per ogni bisogno, ci sarà un mercato”, è invece la versione di Sturzenegger. La sua strategia consiste nello sfrondare l’ordinamento da tutte quelle previsioni che creano o rafforzano delle posizioni di rendita, in modo da dare libero sfogo all’ingegno e allo spirito imprenditoriale delle persone. Praticamente ogni giorno c’è un decreto. L’instancabile produzione testimonia sia l’intenso lavoro preparatorio sia la selva di “marchette” che nel corso degli anni si sono stratificate.

L’elenco dei suoi tentativi – alcuni riusciti, altri respinti – è infinito. Per fare solo alcuni esempi: ha fatto imbufalire gli avvocati consentendo il divorzio consensuale senza passare dai giudici. Ha soppresso l’autorizzazione del ministero dell’Economia per l’esportazione di opere d’arte (“sapete quante volte è stata negata negli ultimi trent’anni? Zero”). Ha cancellato i certificati di omologazione per i pezzi di ricambio per le automobili (“li rendono più costosi, con più furti e rincari delle assicurazioni”). Ha introdotto la prescrizione elettronica con l’obbligo di indicare il generico per i medicinali, che in Argentina costano molto più che altrove. Ha liberalizzato l’importazione di farmaci a basso costo. L’ultimo decreto riguarda i distributori di benzina e consente il self service, che incredibilmente è vietato in Argentina. La linea è secca: “Non si tratta di semplificare le procedure, ma di eliminarle”. Da qui la scelta del nome del ministero che non è della “Semplificazione”, ma appunto della “Deregolamentazione”.



Ciascuna di queste riforme può apparire marginale e di per sé poco influente sui destini del paese. Ma messe tutte assieme possono fare la differenza, soprattutto nel lungo termine. Anche perché poi ci sono gli scontri più muscolari. Poche settimane fa, l’11 novembre, Sturzenegger ha firmato la liberalizzazione del servizio postale, consentendo ai privati il recapito di lettere, telegrammi e dei pacchi fino a 50 chili. Ai sindacati che si opponevano alla privatizzazione di Aerolíneas Argentinas (l’Alitalia argentina) è stato proposto di assumerne loro il controllo; sono stati liberalizzati i servizi di terra e denunciati per sequestro di persona i lavoratori di Intercargo, la società che gestisce in regime di monopolio l’handling dei bagagli, che avevano bloccato 2 mila viaggiatori già imbarcati durante uno sciopero selvaggio. Lo scontro con i sindacati per tagliare gli enormi privilegi dei piloti, che ha rievocato la battaglia di Ronald Reagan con i controllori di volo, ha portato enorme popolarità al governo. Ma l’ambito più rivoluzionario e di maggiore impatto è l’abolizione dei controlli dei prezzi, che sono incistati nel diritto argentino. Al momento la motosega di Sturzenegger si è abbattuta su ben 43 forme di tetto ai prezzi, compresa l’energia. Il caso forse più incredibile e meglio documentato è quello degli affitti. Quando i limiti ai contratti di locazione furono introdotti nel 2020, molti proprietari alzarono i canoni (in modo da anticipare l’inflazione futura) o tolsero le proprie abitazioni dal mercato, tenendole sfitte o dandole in nero. Alla fine del 2022, solo a Buenos Aires si contavano 200 mila appartamenti vuoti, il 48 per cento in più del 2018. Undici mesi dopo la liberalizzazione, l’offerta è cresciuta del 188 per cento e il costo degli affitti si è ridotto del 48 per cento in termini reali. La riforma del mercato immobiliare ha anche spinto i mutui ipotecari, che erano praticamente scomparsi. Le banche sono passate dall’erogare pochi milioni di dollari al mese all’inizio dell’anno a 22 milioni a luglio, 68 milioni ad agosto, 126 milioni a settembre e 175 milioni a ottobre.



Non sempre Sturzenegger ha avuto vita facile. A dicembre 2023, intendeva cancellare gli impedimenti all’offerta di internet satellitare, spalancando le porte ai numerosi provider di tale servizio (tra cui Starlink di Elon Musk). “In questo modo daremo accesso a internet a tutti gli argentini, dovunque stiano. Con un costo per lo stato pari a zero”, aveva detto. Ma aveva sottostimato la durezza della reazione da parte dei colossi delle telecomunicazioni: “Un giorno ricevetti la telefonata di un governatore, nel cui distretto c’è la sede di una di queste compagnie. Mi disse: per far passare il vostro decreto avete bisogno dei nostri voti al Senato. Li avrete, ma non su quell’articolo”. L’azione di Sturzenegger ha ispirato l’incarico di Elon Musk e Vivek Ramaswamy a capo del nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge) nell’amministrazione Trump: “Abbiamo esportato il modello della motosega”, ha detto Milei dopo l’annuncio da parte di Trump. Nella strategia del presidente, la deregolamentazione non risponde solo alla sua visione anarcocapitalista. Serve soprattutto a imprimere uno shock positivo all’economia dal lato dell’offerta, compensando lo shock negativo dal lato della domanda conseguente alla stretta fiscale e monetaria. Non potendo usare né la leva della domanda (come farebbe un keynesiano) né quella dei tagli fiscali (come farebbe un seguace della curva di Laffer), a Milei non resta che liberare l’economia.

Ma ciò è tecnicamente, e non solo politicamente, complesso: sopprimere un sussidio o chiudere un carrozzone pubblico suscita le ovvie proteste dei diretti interessati, ma non richiede particolare inventiva. La deregolamentazione presuppone invece una conoscenza profonda delle norme e dei loro impatti sull’economia, perché nulla è più dannoso di una deregolamentazione parziale o mal congegnata: per questo Sturzenegger dice che, raccolti con la motosega i frutti che pendono dai rami più bassi, bisogna passare alla “motosega profonda”. E per questo è stato cruciale il suo lungo lavoro preparatorio. Non solo: il successo della lotta all’inflazione è speculare alla deregolamentazione. Se l’obiettivo è stimolare l’attività economica, bisogna convincere le persone che la moneta potrà effettivamente svolgere la sua cruciale funzione di riserva di valore: che non si svaluterà mese dopo mese.

Sebbene Milei punti spesso il dito contro i sindacati, colpevoli di ingessare il paese e spesso di fare la cresta sui programmi di assistenza sociale che gestiscono, nel mirino ha anche la Confindustria argentina. Secondo il suo team economico, l’inflazione è sostenuta non solo dalle scellerate politiche fiscali e monetarie dei peronisti, ma anche della barriera protezionistica che questi avevano eretto attorno al paese e alle imprese. Per questo uno dei primi provvedimenti è stato un pesante taglio dei dazi, che ha suscitato le rimostranze degli imprenditori. Lo scontro è arrivato all’apice allorché l’associazione degli industriali ha tenuto la sua assemblea annuale, snobbata dai rappresentanti del governo. In un precedente discorso alla sede dell’Unione degli industriali, Milei aveva criticato apertamente gli imprenditori che lo ascoltavano per la loro “relazione di tutela viziosa” con lo stato: “Il protezionismo non ha fatto altro che generare un settore industriale dipendente dallo stato. Questa è una delle radici delle crisi economiche strutturali che soffriamo da tanti decenni”.



Come si vede dall’identikit di figure centrali nell’amministrazione Milei, quali Sturzenegger e il ministro dell’economia Caputo, il governo argentino si distingue da molte esperienze populiste perché ha reclutato, specie sui temi economici, una classe dirigente di grande esperienza e competenza. Gli uomini chiave – da Caputo a Sturzenegger, passando per il nuovo governatore della Banca centrale Santiago Bausili – hanno avuto tutti ruoli di rilievo nel governo Macri. E dopo il fallimento di quell’esperienza, sembrano tornati più agguerriti. Non c’è più spazio per il “gradualismo”. E per due ragioni, più volte spiegate da Milei. La prima è che i programmi gradualisti hanno fallito. La seconda è che l’Argentina, stavolta, non ha tempo né credito. “There’s no alternative”, diceva Margaret Thatcher. “No hay plata”, dice ora Milei. Sebbene il presidente argentino sia un economista eterodosso, di scuola austriaca, la sua esperienza è un monumento a favore del mainstream: sta perseguendo una strategia di risanamento da manuale, e le cose vanno esattamente come la teoria predice. Dopo anni di polemiche sul fatto che la realtà è diversa dalle astrazioni degli economisti, Milei sta vendicando l’onore della disciplina: all’inflazione si risponde con una stretta monetaria e fiscale; alla recessione con le liberalizzazioni; a un’economia ingessata iniettando flessibilità nei mercati dei prodotti, nel mercato del lavoro e nell’interscambio con l’estero. Adesso mantenere la rotta è essenziale a ricostituire la credibilità internazionale dell’Argentina. Per questo ogni “no” di Milei rafforza l’azione del governo.

Nel mese di settembre, quando l’economia aveva raggiunto il fondo, il Senato argentino aveva approvato a maggioranza ampissima una riforma delle pensioni, che avrebbe aumentato le uscite di 1 punto di pil, e un aumento dei finanziamenti alle università. Con i sondaggi a picco e oltre i due terzi del parlamento contro, Milei ha imposto due veti. Il veto presidenziale in Argentina può essere rigettato con i due terzi dei voti in Parlamento. Alla fine, Milei è riuscito a portare dalla sua parte i parlamentari dell’ex presidente Macri e a bloccare le leggi. Da lì in poi, anche per la ripresa dell’economia, sia i consensi sia i dati macroeconomici sono tornati a salire. Il Riesgo País (un indicatore analogo al nostro spread), che era a 2.000 punti un anno fa e ora è a circa 750 punti, dimezzandosi da settembre. E nonostante le cose vadano meglio e il 2025 sarà un anno elettorale fondamentale per il governo, perché potrebbe conquistare la maggioranza in Parlamento, Milei non ha intenzione di smuoversi dal pareggio di bilancio. “Il deficit zero non si negozia. Con deficit zero tutto, senza deficit zero niente” ha detto José Luis Espert, il presidente della commissione Bilancio incaricato dal presidente per trovare un accordo con gli altri partiti.



Un anno dopo l’elezione a sorpresa di Milei, il piano di stabilizzazione macroeconomica ha superato il punto più critico, ma non è concluso. Sta anzi entrando nella sua fase più decisiva che riguarda l’eliminazione dei controlli di capitale che, naturalmente, scoraggiano gli investimenti: nessuno investe dollari in Argentina se sa che non potrà portarli fuori. Sulla rimozione del cosiddetto “cepo cambiario” il ministro Caputo è sempre stato molto cauto. Sono due i suoi principali timori: che la liberalizzazione dei cambi possa far rialzare la testa all’inflazione e l’esposizione a un attacco speculativo. Entrambi questi rischi potrebbero essere risolti, o quantomeno ridotti, con un nuovo accordo con il Fmi. Le condizioni economiche ci sono, d’altronde il governo Milei ha fatto più di quanto richiedeva il Fondo. E ci sono anche quelle politiche dati i buoni rapporti con gli Stati Uniti, già con l’amministrazione Biden, ma ancora più dopo la vittoria di Trump.

Trump però può anche creare dei problemi a Milei. I due sono amici, alleati contro la “sinistra”, impegnati nella “battaglia culturale” contro “l’ideologia woke”, hanno idee simili sulle politiche ambientali e il cambiamento climatico (anche se l’Argentina ha confermato l’adesione all’accordo di Parigi). Ma sul piano economico sono agli antipodi. Milei si rifà a Juan Bautista Alberdi, padre della Costituzione argentina, liberale classico e promotore dell’apertura al libero commercio. Trump si ispira al presidente William McKinley, noto per le battaglie a favore del protezionismo e dei dazi commerciali. Milei coltiva le idee libertarie di Milton Friedman e Ronald Reagan. Trump, inconsapevolmente, ricalca le tesi dello “strutturalismo” e della “sostituzione delle importazioni” che hanno avuto in America latina come massimi esponenti l’economista argentino Raúl Prebisch e il generale Perón. E non si tratta solo di una contraddizione teorica, ma di un problema pratico. Se Trump dovesse portare avanti la sua agenda protezionista, con botte di dazi del 10-20 per cento, ci saranno conseguenze negative per l’Argentina. Non semplicemente perché ne soffrirebbe l’export argentino. Ma perché aumenterebbe l’inflazione negli Stati Uniti costringendo la Federal Reserve ad alzare i tassi d’interesse, con un forte contraccolpo finanziario per l’Argentina e il suo piano di stabilizzazione.

E’ proprio su questo tema che Meloni e Milei potrebbero siglare una sorta di “patto di Atreju” per evitare che la frammentazione commerciale rompa i legami tra i blocchi continentali europeo e americano. Venerdì scorso, la presidente Ursula von der Leyen è andata in Uruguay per firmare il trattato di libero scambio tra Unione europea e Mercosur (il mercato comune del Sud America), al termine di un negoziato ventennale. E’ un accordo storico, che unisce un mercato da 700 milioni di persone abbattendo circa il 91 per cento dei dazi (attorno a 4 miliardi di euro annui). Proprio poche settimane fa, il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta aveva invitato l’Europa a “rivitalizzare le discussioni sugli accordi commerciali e di investimento” come il Mercosur. Sul tema, però, ci sono anche da noi molte ipocrisie. Nell’Ue, il principale nemico dell’accordo è Emmanuel Macron, pronto a sacrificare un importante risultato europeo per placare le proteste degli agricoltori francesi. Stessa posizione espressa fino a pochi giorni fa dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e per le medesime ragioni. Meloni non ha ancora parlato. Eppure l’Italia ha un ruolo determinante. Per bloccare il trattato serve il veto di almeno quattro paesi Ue che rappresentano almeno il 35 per cento della popolazione. Al momento c’è il no della Francia, a cui potrebbero aggiungersi Austria, Polonia e Paesi Bassi che, insieme, rappresentano circa il 30 per cento della popolazione. L’Italia è l’ago della bilancia.

Milei, che ha appena preso la guida del Mercosur, ha dato sostegno pieno all’accordo. Anzi, ha attaccato gli altri paesi latinoamericani per il troppo protezionismo e per il tempo perso: “Ci siamo chiusi nel nostro acquario e ci sono voluti vent’anni per concludere l’accordo con l’Ue”. Il trattato ha un valore geopolitico che trascende le semplici ricadute economiche, peraltro positive per entrambe le parti. Tra l’altro, proprio nei giorni scorsi, Milei ha avviato trattative analoghe con gli Stati Uniti. Se Meloni si schierasse con Macron mettendo il veto, non farebbe semplicemente un atto sgradevole nei confronti del presidente argentino dopo averlo invitato a Roma con tutti gli onori. Commetterebbe soprattutto un errore politico. Giocare di sponda con Milei, rilanciando nuovi round di trade agreement internazionali, potrebbe essere l’unico un modo per placare Trump e fermare come Atreju, il protagonista della “Storia infinita”, l’avanzata del suo Nulla fatto di dazi, che farebbe male tanto a Roma quanto a Buenos Aires.

Leave a comment

Your email address will not be published.