Nel Rinascimento studiavano la Cappella Bardi per carpirne i segreti, oggi svelati grazie ai restauri sostenuti dalla campagna di raccolta fondi #Giving4Giotto
A un palmo dal volto di Francesco, quasi la stessa distanza d’occhi di quelli del fraticello che in primissimo piano lo guarda addolorato; poi basta voltarsi appena di lato, ed ecco il volto mirabile di Chiara. Alla stessa distanza della mano di Giotto che li ha dipinti, con magnifica arte e tecnica da virtuoso. A secco, per molta parte. Un piccolo grande privilegio, arrampicarsi sulle impalcature ingombre di strumenti del restauro che salgono su nella cappella altissima e stretta, a destra dell’altare maggiore. La cappella Bardi. Le impalcature fissate nelle stesse “buche pontaie” che reggevano le assi su cui camminavano Giotto e i suoi. In Santa Croce. Le esequie di Francesco è la scena più famosa del ciclo, nonostante le molte ingiurie subite dal tempo e dalla mano degli uomini. Come accaduto anche agli altri dipinti che illustrano momenti della vita del Poverello, la rinuncia ai beni paterni, l’approvazione della Regola, le Stimmate, la predica davanti al sultano. Ancora nel Rinascimento gli artisti studiavano quei dipinti per carpire il segreto della loro vivezza.
Ora lo conosciamo, grazie alla eccellente campagna di restauro in corso: parte del segreto era la tecnica usata, la pittura a secco sopra le “giornate” stese a fresco dagli aiuti che consentiva velocità d’esecuzione e migliore definizione dei colori. Poi vennero le ingiurie del tempo e dell’umido che sale dall’Arno, finché nel 1714 passarono sui muri una pesante mano di imbiancatura e solo a metà Ottocento Giotto fu ritrovato, quel che ne restava. Ma negli ultimi sessant’anni nessun altro intervento è stato fatto. #Giving4Giotto si chiama la campagna di raccolta fondi, promossa dall’Opera di Santa Croce, che sostiene il restauro delle Storie di san Francesco nella cappella Bardi, realizzato con fondi privati. La prima fase dell’intervento, che si concluderà nell’estate del 2025 – assieme all’Opera di Santa Croce è condotto dall’Opificio delle pietre dure con il sostegno di Fondazione Cr Firenze e Arpai, l’Associazione per il restauro del patrimonio artistico italiano – è in realtà iniziata già nel 2022, con un’innovativa fase di documentazione.
La fotografia ultravioletta ha permesso di rilevare i materiali diversi nella pittura, riconoscendo quelli originali e quelli dei pesanti restauri; la collaborazione con il dipartimento di Ingegneria civile, chimica e ambientale dell’Università di Genova ha prodotto un modello Hbim 3D dell’intera cappella. Altri studi, come un’indagine georadar in collaborazione con il dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Firenze, ha consentito di ottenere la prima tomografia Gpr delle pareti verticali della cappella. Ne valeva la pena. E la Fondazione Cr Firenze ha deciso di offrire ai residenti di città e dei comuni della Città metropolitana un anticipo di bellezza, l’anteprima delle visite al cantiere, fino a luglio 2025: “A tu per tu con Giotto”. Dopo l’estate 2025, per due mesi anche i non fiorentini potranno salire sui ponteggi.
La cappella Bardi in Santa Croce a Firenze è l’ultimo capolavoro dell’artista, le Storie della vita di san Francesco d’Assisi furono dipinte sicuramente dopo il 1317 e forse entro il 1321, quando Giotto aveva già 55 anni: coetaneo di Dante, che morirà esule proprio quell’anno, la sua lunga vita durerà invece fino a settanta. Quando realizza il suo capolavoro maturo, di ritorno nella sua città, è ormai il più importante dei pittori. Aveva già fatto le Storie di san Francesco ad Assisi, era stato a Roma e a Padova. Tornato a Firenze aveva dipinto la Maestà e il Crocifisso di Ognissanti e la Dormitio Virginis che ora è a Berlino. Secondo Ghiberti, di dieci anni minore di lui, già nel 1318 aveva iniziato a dipingere ben quattro cappelle e altrettanti polittici per quattro diverse famiglie fiorentine in Santa Croce: per i Bardi e i Peruzzi – la loro cappella è la seconda a destra, e gli affreschi di Giotto molto più malandati – mentre la cappella Baroncelli fu poi affrescata da Taddeo Gaddi. Ma la cappella più importante, la più vicina all’altare maggiore, era quella dei Bardi.
E anche il tema è maggiore, la vita di san Francesco messa in scena secondo i dettami della Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio, che Giotto aveva già illustrato ad Assisi. Il mandato estetico dei francescani era molto preciso, e Giotto l’ha fatto completamente suo: chiaro per illustrare la biografia, ma soprattutto preciso nel creare un parallelismo tra Cristo e Francesco, “l’Alter Christus”: l’immagine del santo con le Stimmate domina l’ingresso della cappella.
Le particolarità di questa cappella sono però altrove. La prima è il dipinto San Francesco predica davanti al sultano (Prova del fuoco), che ha una vivacità straordinaria, con i sacerdoti musulmani che fuggono e il Sultano che indica il miracolo della vera fede – un buon viatico, per una famiglia di mercanti devoti e abituati a viaggiare oltremare. L’altra è un episodio meno “pop”, ma decisivo: San Francesco che appare al Capitolo di Arles durante una predica di sant’Antonio da Padova. Che avrà di tanto importante, questo miracolo? Nel 1224 – secondo il racconto di Bonaventura – Francesco, ancora vivo, appare in Francia mentre Antonio tiene un sermone ai frati. Antonio è portoghese, uno dei primi “stranieri” della grandissima e rapidissima diffusione dell’ordine. E’ un raffinato teologo, tra i primi intellò del Poverello.
E fu proprio Francesco ad autorizzarlo a insegnare e a predicare. Il miracolo fissa insomma il momento in cui Francesco accetta quel che gli è chiesto dal Papa di Roma: impegno pastorale, insegnamento, ruolo pubblico nella società prevalgono sull’iniziale “Vangelo sine glossa” vissuto senza fronzoli in compagnia di Sorella Povertà. Poi ci sono altre immagini parlanti: san Ludovico di Tolosa, francese e vescovo francescano, e per di più un nobile, figlio di Carlo II d’Angiò re di Sicilia; e santa Elisabetta d’Ungheria, la regina che entrò nel Terz’Ordine francescano e fu proclamata santa da Gregorio IX, il Papa grande protettore di Francesco. Insomma, le storie della cappella Bardi servono a spiegare che l’Ordine ormai è una realtà internazionale, potente e riconosciuta. Le dispute tra gli “zelanti” che chiedevano di vivere in perfetta povertà e i “minori”, fautori di un Ordine normalizzato, con beni, conventi e una missione in linea coi dettami della Chiesa erano iniziate mentre ancora Francesco era in vita e continueranno per secoli; ma ormai il destino del francescanesimo era deciso, accesso alle ricchezze compreso. E le grandi famiglie fiorentine, che avevano finanziato Santa Croce, non potevano che confermare la scelta.
Già, Santa Croce. Per capire questi capolavori di Giotto bisogna capire prima Santa Croce. Giotto era l’artista più acclamato, non roba alla portata di francescani poverelli. Bisogna pensare a cos’era Firenze, certo, e a cos’erano diventati i francescani. A Firenze erano arrivati presto, già nel 1226 forse, avevano preso casa lì sull’ansa bassa dell’Arno, zona inospitale e umida, subito fuori le mura. Attorno alla comunità si erano radunati i popolani ma anche i ricchi mercanti e banchieri, e già nel 1294 erano pronti a costruire la grande chiesa, chiamando probabilmente l’archistar Arnolfo di Cambio. Alla sua realizzazione contribuirono con donazioni centinaia di fiorentini, tra i più in vista la grande casata dei Bardi, che aveva i “focolari” Oltrarno ma a meno di un chilometro da Santa Croce. Nobili e potenti, fu uno di loro, Simone de’ Bardi, a sposare Beatrice Portinari, la Beatrice di Dante. Firenze e i francescani erano cresciuti. E l’ordine era questo, “rifondato” da san Bonaventura. Santa Croce è ancora oggi una chiesa particolarmente nel cuore dei fiorentini: per la sua storia popolare, le sue tombe e la sua piazza, quella del Calcio fiorentino. E per il Crocifisso di Cimabue, simbolo vivente della grande alluvione (è pur sempre uno dei punti bassi della città).
E la guida turistica in versi di Foscolo ha fatto il resto. Ma questo luogo è nel cuore dei fiorentini innanzitutto per Francesco, il nome di Santa Croce ricorda che qui fu portata una reliquia della Vera Croce, regalata ai francescani dal re santo Luigi IX di Francia nel 1258. Fu fra’ Mansueto, francescano nativo di Castiglion fiorentino e gran diplomatico, a portarla in città. E’ ancora il cuore pulsante del francescanesimo, dallo scorso anno Santa Croce è un punto di partenza dei “cammini francescani”. Tanto più in questi che sono gli anni del grande Giubileo francescano, anzi sarebbe da chiamare al plurale: dal 2023 al 2026 si celebra l’ottavo centenario dell’esperienza di Francesco. Il 2023 è stato l’ottavo centenario della Regola e del Natale di Greccio. Il 2024 quello delle Stimmate, il 2025 sarà il Giubileo del Cantico delle creature e il 2026 celebrerà l’ottavo centenario della morte, anzi della “Pasqua di Francesco”.
In attesa degli otto secoli della canonizzazione, 1228, il 2024 ha portato con sé anche un altro anniversario importante, i 750 anni dalla morte di san Bonaventura da Bagnoregio. Ministro generale dell’Ordine dal 1257 al 1273, teologo e docente alla Sorbona – il suo compagno di cattedra fu il domenicano Tommaso d’Aquino, morto anche lui nel 1257 – Bonaventura non è estraneo a ciò che Santa Croce rappresenta. Fu lui a riformare il movimento, a dargli una nuova regola e soprattutto una teologia compiuta e a dare l’interpretazione ufficiale e definitiva della figura di Francesco, sottraendola a ogni rischio ereticale. Mossa che ha, tra i suoi momenti simbolici, il gran falò cui fece sottoporre tutte le copie allora conosciute della Vita di Tommaso da Celano, la prima biografia di Francesco, piena di aneddoti presi dal vivo e da testimoni oculari.
Così, prima di ammirare Giotto, c’è un’altra opera da guardare: ora sta provvisoriamente ai piedi dell’altare maggiore, ma la sua storica collocazione è l’altare della cappella Bardi. E’ la grande tavola di Coppo di Marcovaldo, dipinta 80 anni prima di Giotto, a metà Duecento, San Francesco e venti storie della sua vita, nota appunto come Tavola Bardi. A parte la bellezza e l’impeto ingenuo e popolare, ha una caratteristica importante: è la narrazione pittorica più completa delle vita del santo prima del ciclo di Assisi, e soprattutto le venti storie che fanno da contorno alla grande figura di Francesco sono desunte dalla Vita prima di Tommaso da Celano, scritta da un testimone oculare subito dopo la canonizzazione. Sono sopravvissute al rogo di Bonaventura (1266), che fece sostituire Celano con la sua nuova biografia ufficiale. Nello scontro iconico tra Coppo e Giotto passa insomma la storia del francescanesimo, tra il Poverello ribelle e il santo obbediente. Bastano i dettagli. Tommaso da Celano, che aveva conosciuto Francesco, lo descrive con “barba nigra” e così viene raffigurato da Coppo di Marcovaldo. Le barbe di Giotto sono più educate, o assenti, si intuisce solo un velo di peluria chiara sul viso glabro. So polite.
Gran merito dell’impresa che ci permette di riscoprire un capolavoro e i suoi molti significati è ovviamente dell’Opera di Santa Croce, l’ente laico che a partire dal Trecento si cura della chiesa, della sua conservazione, della gestione dei suoi beni. Una “fabbriceria” come ne esistono in ogni cattedrale antica, a Santa Fiore o a Milano. Formata da volontari, senza fini di lucro, porta avanti tra gli altri impegni i necessari restauri di Santa Croce, autofinanziati. Nel corso degli anni quelli del cenotafio di Dante, del Monumento a Michelangelo, e gli affreschi di Agnolo Gaddi nella cappella Maggiore, grazie ai fondi raccolti con le visite e le donazioni private. La basilica è infatti proprietà del Fondo edifici di culto del ministero dell’Interno e del Comune di Firenze, ma la conservazione è in carico all’Opera, mentre l’attività religiosa è affidata alla comunità dei Frati minori conventuali. Una macchina gestionale complicata, come per innumerevoli altri siti artistico-religiosi, cui forse prima o poi qualche ministro o direttore del Mic potrebbe mettere mano. Il grande progetto della cappella Bardi è di gran lunga il più importante, ha richiesto uno sforzo e una partecipazione enorme. Ma Giotto sta tornando alla vita. Il restauro è affidato a Cristina Acidini, presidente dell’Opera di Santa Croce, ed Emanuela Daffra, soprintendente dell’Opificio delle pietre dure.
La collaborazione con l’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr di Bologna ha consentito di collocare sonde per la misura in continuo dei dati climatici e il monitoraggio dell’aerosol ambientale, alcuni laboratori di ricerca europei hanno messo a disposizione strumenti di analisi non invasivi e sperimentali. Un grande lavoro d’insieme, che ha già regalato molte sorprese. E’ venuta alla luce una decorazione precedente, è stato possibile capire la struttura dei palchi del cantiere giottesco, la termovisione ha permesso di individuare le sinopie del disegno preparatorio. Aiuti per capire come lavorava il Giotto maturo (pienissimo di committenze, andava di fretta). Il genio tracciava l’abbozzo di ciascuna scena per pianificare le “giornate”, e nella cappella Bardi mette in opera sperimentazioni con l’utilizzo misto di pittura a fresco e a secco, che gli permette di usare una gamma di colori più ampia, probabilmente con l’uovo, per ottenere chiaroscuri e tono più intensi: il grande realismo di Giotto nasce così. E tutto prende vita, qui, assieme alla memoria viva del francescanesimo toscano e ai suoi molteplici Giubilei. Santa Croce è viva, nel nome anche di Giotto. E quando il restauro sarà finito, vale la pena prenotarsi per vederlo a tu per tu.