La dinastia degli Assad, collassata dopo 54 anni al potere

L’ascesa di Hafez Assad, presidente dal 1971 al 2000. La successione del giovane figlio Bashar. Un filo comune: autoritarismo e repressione

Una barzelletta siriana mostrava Hafez Assad che bussa al grande portone del Paradiso. “Che vuoi?” gli chiede l’arcangelo Gabriele. “Ma come? Io sono il raìs! Ho il diritto di entrare”. “Aspetti che controllo sui registri». Ma dopo aver controllato l’arcangelo risponde: “Niente, il suo nome non compare. Lei non può entrare qui”. “Ma come?” riprende Assad. “Io sono il raìs che ha combattuto contro il nemico, sono il duce combattente, sono l’artefice della fermezza, sono il padre della Siria moderna…”. “Mi dispiace” dice l’Arcangelo, interrompendo l’interminabile lista dei titoli. «Mi dispiace, ma abbiamo appena cambiato la Costituzione del Paradiso”. Hafez Assad era morto il 10 giugno del 2000; suo figlio Bashar, classe 1965, sarebbe diventato il decimo presidente della Repubblica araba siriana soltanto il 17 luglio. La Costituzione prevedeva che il capo dello Stato dovesse avere almeno 40 anni, e c’era stato bisogno di quei 47 giorni per emendare il testo… L’inizio di 24 anni di potere, che si aggiungevano ai 30 anni del padre: sopravvissuto a 11 anni di guerra civile; ma poi collassato a sorpresa dopo una improvvisa offensiva ribelle che è iniziata il 27 novembre da Idlib, estrema roccaforte in mano ai ribelli; ed è arrivata a Damasco l’8 dicembre, in appena 11 giorni.

La famiglia Assad, in arabo “Leone”, appartiene alla minoranza alawita: tra i due e i tre milioni di persone, non oltre il 12 per cento della popolazione siriana. Loro si dicono islamici, adesso l’Iran degli ayatollh ha avuto la convenienza di dichiararli sciiti ad honorem, ma considerano professione di fede, preghiera, elemosina, pellegrinaggio alla Mecca e digiuno del Ramadan simboli, non precetti. Inoltre accostano al Corano un nucleo di verità esoteriche accessibili solo a pochi iniziati, e oltre alle ricorrenze sunnite e sciite festeggiano anche il Natale e l’Epifania dei cristiani e il capodanno zoroastriano. “Più infedeli degli ebrei, dei cristiani e degli stessi idolatri” li definisce una fatwa sunnita del Trecento. Per sopravvivere alle persecuzioni si stringono allora in una solidarietà tribale fortissima, finché la loro grande occasione non arriva nel 1920, con il Mandato francese. In cambio di una regione autonoma, di borse di studio e di vari favoritismi migliaia di loro si arruolano nelle truppe coloniali, mentre i rappresentanti più importanti dei clan sono cooptati nell’amministrazione. Al momento del riconoscimento ufficiale dell’indipendenza, nel 1946, gli alawiti sono dunque più ricchi e più istruiti dei loro concittadini appartenenti ad altre confessioni religiose, riempiendo università e scuole militari.

Nato il 6 ottobre 1930 a Qardaha, sulle montagne attorno al porto di Latakia, Hafez Assad entra all’Accademia di Homs nel 1952, diventando pilota militare nel 1955. Come molti alawiti e come molti militari prende la tessera del Baath, partito fondato a Damasco nel 1947, il cui nome può anche essere letto come una traduzione dell’italiano “Risorgimento”, e nella cui ideologia si fondono alla rinfusa l’esempio del nazismo e quello del comunismo sovietico. Sul modello dell’unificazione italiana il Baath vuole infatti l’unità del mondo arabo: programma che favorisce il potere dei militari. Ma la fonda su basi laiche e socialiste: dunque, per gli alawiti un’arma contro le pretese egemoniche della maggioranza sunnita. In Siria d’altronde la sconfitta inflitta da Israele nel 1948-49 ha avuto come conseguenza una serie di golpe, e il radicalismo nazionalista dei governi militari è stato poi confermato dai cittadini alle elezioni pluraliste del settembre 1954. Nell’ottobre 1955 il governo di Damasco conclude un’alleanza militare con l’Egitto, dove nel frattempo è salito al potere Nasser. Militare di carriera di belle speranze, Assad è mandato al Cairo a seguire un corso di addestramento. Lì però comprende subito che Nasser concepisce l’unione araba solo come allargamento dell’Egitto. Quando dunque il 1° febbraio 1958 il governo di Damasco accetta di confluire nella nuova Repubblica araba unita, il giovane ufficiale inizia a tessere la sua tela. Anche il matrimonio, celebrato in quello stesso 1958 con Anisa Makhluf, appartenente a un clan alawita da sempre rivale del suo, si rivelerà una mossa decisiva per la sua rete di clientele. In seguito Assad va a frequentare un nuovo corso di addestramento a Mosca, altro suo futuro punto di riferimento. E al ritorno è, nel 1960, uno dei cinque fondatori di un Comitato militare che contesta sia l’annessione all’Egitto, sia la dirigenza storica del Baath.

Il moto indipendentista del 1961 lo prende talmente alla sprovvista che lo sorprende al Cairo, dove per breve tempo viene tenuto agli arresti dagli egiziani. Liberato e rimpatriato, è però visto con sospetto dalla dirigenza storica del Baath, e relegato nell’ufficio di un ministero. Ma l’8 febbraio 1963 il golpe che porta al governo dell’Iraq il locale partito Baath toglie di mezzo i più stretti alleati del regime di Damasco, e appena un mese dopo anche il Baath siriano fa un colpo di Stato, in bizzarra alleanza con un movimento nasseriano a sua volta in cerca di vendetta contro il governo che ha rotto l’unione con l’Egitto.

Promosso tenente colonnello, Hafez è all’inizio nominato capo della base aerea di Dumayr. Poi, quando tra aprile e maggio arriva il momento di regolare i conti con i nasseriani, è lui a essere incaricato della baathizzazione delle Forze armate: un compito di cui approfitta per estendere al massimo il potere della sua clientela alawita. Falco del regime, nel 1964 è protagonista della sanguinosa repressione della rivolta dei Fratelli musulmani. Nel febbraio 1966 blocca il golpe dell’ala “civile” del Baath, i cui esponenti vengono tutti arrestati o costretti a fuggire in Iraq. Ministro della Difesa, avrebbe in teoria potuto essere danneggiato dal disastro della Guerra dei sei giorni del 1967, in cui la Siria perde le Alture del Golan. Invece ne approfitta per mettere i militari contro il presidente Salah Jadid. Ne segue la mini-guerra civile che tra il 25 e il 28 febbraio 1969 contrappone i reparti speciali dell’esercito agli ordini di Rifaat Assad, suo fratello minore, ai servizi di sicurezza di Abd al-Karim al-Jundi, uomo di Jadid. Assediato nella sua villa, al-Jundi preferisce il suicidio alla resa. Lo scenario si ripete il 13 novembre 1970, quando i carri armati circondano il palazzo presidenziale. Ma Jadid si lascia arrestare, e resterà nel carcere di Mezze per 23 anni, fino alla morte.

Già chiamato negli anni Sessanta Suriya al-Baath, “la Siria del Baath”, da questo momento il Paese viene ribattezzato Suriya al-Assad, “la Siria di Assad”. Presidente dal 20 febbraio 1971, Assad organizza nel 1972 un Fronte nazionale progressista ispirato più che al partito unico sovietico alle democrazie popolari tipo Polonia o Ddr, con il Baath affiancato da una pletora di partitini satelliti. Ma il potere vero appartiene ai servizi di sicurezza, saldamente in mano ai clan alawiti. Sempre più sospettoso, dopo i bagni di folla dei primi anni Assad tende a isolarsi nel palazzo presidenziale o nella sua villa al mare, riducendo al minimo i contatti anche con i suoi più stretti collaboratori. In compenso, i suoi ritratti, statue ed effigi si moltiplicano in tutto il Paese – in attesa di essere abbattuti dalla ultima rivolta; mentre i muri sono ricoperti dai suoi slogan e le stazioni radio e Tv ripetono le sue gesta. La repressione è durissima soprattutto nei confronti dei Fratelli musulmani, il cui nuovo tentativo di insurrezione nel 1982 viene stroncato con un bombardamento aereo sulla città di Hama, ora infatti tra i primi obiettivi della offensiva ribelle: tra i 10.000 e i 25.000 morti. Sono colpite anche le ali dei partiti consentiti ma non del tutto acquiescenti al suo regime, Baath compreso. E gli intellettuali con velleità di indipendenza, i membri della minoranza etnica curda, gli oppositori di ogni tipo. Varie organizzazioni per i diritti umani parlano di almeno 17.000 desaparecidos, e nel 2000 c’erano 600 prigionieri politici nel solo carcere di Seydnaya. Alcuni di essi in attesa di processi o capi di imputazione formali anche da 20 o 30 anni. Nel 1990 un rapporto di Amnesty International stima in almeno 39 i tipi di tortura adottati nelle carceri siriane.

In campo internazionale, però, piuttosto che l’ideale della unità araba, il regime di Assad punta più prosaicamente a ricostruire la Siria del Mandato francese. Un obiettivo è dunque il recupero della provincia di Alessandretta, ceduta da Parigi alla Turchia nel 1938, da cui le tensioni con Ankara. Un altro il Golan occupato dagli israeliani nel 1967, e che tenta di rioccupare con la guerra del Kippur nel 1973. Ma con l’accordo del maggio 1974 Siria non recupera che un quarto del territorio. Soprattutto c’è la continua interferenza in Libano, anche con l’invio dell’esercito, e con l’appoggio spregiudicato alle varie fazioni. Da ultimo, soprattutto agli sciiti di Hezbollah, che sono il tassello di una grande alleanza con l’Iran e Hamas da ultimo estesa anche agli Houthi, e che infatti ringrazieranno mandando le loro milizie a combattere nella guerra civile siriana. Nelle maglie dell’interminabile faida i sicari di Damasco hanno ucciso in Libano due presidenti della Repubblica, due figli di presidenti, il fondatore del Partito socialista progressista, un gran muftì sunnita. Assad ha però anche il pragmatismo di appoggiare gli Usa nella guerra per la liberazione del Kuwait, anche mandando un contingente di 16.000 uomini, Per cui per un po’ dopo il 1990 il protettorato di fatto stabilito sul Libano ha il placet di Washington.

Assad si adatta così alla fine della Guerra Fredda, ma boicotta gli Accordi di Oslo, appoggiando le fazioni palestinesi ostili. Così viene risucchiato nell’alleanza con Teheran. In effetti, Clinton fa un tentativo di recupero, con l’importante colloquio del febbraio 2000. Ma il 10 giugno 2000 Bashar muore, per una crisi cardiaca. Già nel novembre 1983 una prima avvisaglia di quei problemi di cuore che lo porteranno alla tomba ha costretto il presidente a una degenza in ospedale durante la quale il fratello Rifaat tenta di prendere il potere. Il 30 marzo 1984, giorno cruciale, Hafez sventa il golpe semplicemente convocando Rifaat davanti alla loro madre e dicendogli: “Che cosa vuoi fare? Vuoi forse rovesciare il regime? Eccomi qui, il regime sono io”. Mandato in dorato esilio con il pretesto di una missione a Mosca, il fratello torna nel luglio 1992 proprio per i funerali della madre. Ma il 21 gennaio del 1994 il trentaduenne Basil Assad, figlio primogenito del presidente ed erede designato, muore in un incidente stradale a bordo di un’auto sportiva, incidente che suscita più di qualche sospetto, al punto che il regime grida al “complotto straniero” e la propaganda ufficiale definisce il morto “martire della nazione”. Ma è più probabile che vi sia la responsabilità di Asef Shawkat, ambizioso giovane ufficiale di cui Basil ostacola il matrimonio con la propria sorella Bushra. Nozze che si celebreranno nel 1995.

Il secondogenito Bashar, un giovanottone alto un metro e 89 centimetri, viene quindi richiamato da Londra, dove sta studiando oftalmologia. Nel novembre 1994 entra all’Accademia di Homs, nel luglio 1997 diventa tenente colonnello, nel gennaio 1999 è colonnello, proprio mentre Rifaat è di nuovo mandato in esilio. Bashar è incaricato di disperderne la milizia privata, e l’episodio provoca un nuovo scontro tra Asef e uno dei cognati. Il giovane Maher, fratello minore di Bashar, lo ferisce infatti a rivoltellate quando lo sente irridere lo zio: è sempre un Assad, e non può essere offeso da un “estraneo”! Rifaat prova a tornare alla carica dopo la morte di Hafez. “Con me libertà e democrazia prevarranno nel Paese e i cittadini potranno finalmente partecipare all’edificazione dello stato scegliendo direttamente i loro rappresentanti” dice dall’esilio spagnolo. “Se tenterà di tornare sarà arrestato” avvertono le autorità.

Bashar ha non solo l’aspetto, ma anche la fama del bravo ragazzo. Per alcuni è una figura di paglia; altri gli attribuiscono invece velleità di apertura. Ma la “Primavera di Damasco” è stroncata a colpi di arresti già entro i primi mesi del 2001. Viene poi l’11 settembre, e Bashar condanna duramente gli attentati, invitando l’amministrazione Usa alla “cooperazione per evitare ogni forma di terrorismo”. Chiarisce però che “bisogna distinguere tra terrorismo e resistenza perché quest’ultima è un diritto legittimo per tutti i paesi e i popoli contro l’occupazione e l’aggressione”. Dopo la caduta del regime iracheno la Siria sarà dunque accusata sia di aver accolto sul suo territorio le armi di distruzione di massa di Saddam, sia di aiutare la guerriglia anti Usa. E il 14 febbraio 2005 il primo ministro libanese Rafiq Hariri salta in aria in un attentato con una tonnellata di esplosivo, dopo una tesa telefonata in cui Bashar lo ha minacciato. La risposta è la Rivoluzione dei cedri: grande movimento popolare che ottiene il ritiro delle truppe siriane dal Libano, anche se grazie a Hezbollah la presa sul paese si mantiene, come continuano gli attentati letali contro esponenti anti-siriani.

Ma la frase sul diritto legittimo di tutti i popoli alla resistenza si ritorce contro Bashar quando dal 15 marzo 2011 la Primavera Araba contagia la Siria con una serie di manifestazioni che sono represse nel sangue. Dalla seconda metà del 2011 la rivolta diventa armata, accendendo un conflitto interminabile in cui in soccorso del regime arriva la Russia di Putin, che in Siria ha ottenuto basi militari sul Mediterraneo. E l’Iran, che appunto nominando gli alawiti sciiti ad honorem ammette la Siria in un asse sciita con Hezbollah, sciiti iracheni e Houthi yemeniti, che diventa anti-israeliano con Hamas. Aviazione iraniana e milizie sciite permettono appunto al regime di reggere e poi addirittura di contrattaccare e apparentemente vincere la guerra, anche se varie aree restano in mano a vari gruppi d ribelli, e in territorio siriano arrivano addirittura forze Usa collegate a milizie curde. Un costo di tutto ciò sono oltre 600.000 morti. Un altro sono oltre 12 milioni di rifugiati: metà in Siria, metà all’estero. Un altro ancora è la radicalizzazione dell’opposizione in senso islamista, con la comparsa dell’Isis e violenze contro cristiani e altre minoranze, per cui appunto i curdi si armano a loro volta per difendersi. Esito assieme dalla massa di rifugiati che arriva in Europa e delle violenze jihadiste sui cristiani è lo sdoganamento di Putin verso una certa destra che poi inizierà a definirsi sovranista, e che inizia appunto a comparire dopo il 2011.

Intanto Bashar Assad per trovare risorse riconverte il regime al traffico massiccio di droghe come il captagon, che usa anche come arma di ricatto per farsi riaccogliere nella Lega Araba. Ma prima la guerra in Ucraina, poi il braccio di ferro contro Israele iniziato da Hamas il 7 ottobre 2023 e in cui si inseriscono Hezbollah e Iran indeboliscono e distraggono coloro grazie ai quali l’assadismo si sostiene. Da dimostrare le informazioni apparse su testate russe e ucraine, su un arrivo da luglio di consiglieri ucraini che a Idlib avrebbero non solo addestrato i ribelli, ma avrebbero anche insegnato loro come fabbricare droni poi rivelatisi decisivi. Comunque, quando un gruppo jihadista che presenta un nuovo volto moderato tenta la spallata, tutto il potere degli Assad dopo oltre mezzo secolo e 11 anni di guerra crolla appunto in 11 giorni. Sconosciuta è, al momento, la sorte di Bashar. Moglie e figli sarebbero già a Mosca, e i cognati negli Emirati Arabi Uniti.

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