I dati fotografano un’Italia arenata tra fatti, parole e paure. Contraddizioni economiche e sociali, con cittadini troppo occupati a stare sul telefono per leggere o andare bene in matematica, mentre la lontananza dalla politica è ormai patologica. Come sbloccarsi
“Si torna a ragionare di crescita. Il nodo di come sostenere il progresso della società italiana non può più essere rinviato”. Parole sacrosante nel momento in cui l’Istat declassa a un modestissimo 0,5 per cento l’aumento del prodotto lordo quest’anno, la metà di quel che ancora prevede il governo. Ma parole che sembrano inusuali in bocca al Censis. Eppure cominciano proprio così le considerazioni generali del rapporto 2024, presentato ieri al Cnel, che si devono alla penna di Giorgio De Rita, segretario generale del Censis dal 2014. Il volume fotografa un paese che non declina, ma galleggia e dove “i conti non tornano”. Dal 2003 al 2023 il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto in termini reali del 7 per cento, perché la crescita non è stata sufficiente e alla lunga ha intaccato anche la ricchezza diminuita del 5,5 per cento negli ultimi dieci anni. Una delle contraddizioni sottolineata dal direttore generale Massimiliano Valerii è che il pil rallenta, ma l’occupazione continua ad aumentare. È vero, “se il nostro tasso di attività fosse uguale a quello medio europeo potremmo disporre di 3 milioni di lavoratori in più”, ma il fatto che i posti di lavoro si creano e non si distruggono, nonostante tutti e tutto, non può essere sottovalutato. Secondo una scuola di pensiero è dovuto agli incentivi fiscali introdotti dal governo e se ci sono troppi occupati rispetto alla capacità produttiva, la competitività non migliora.
Tuttavia è un dato nuovo così come lo è “la mutazione morfologica della nazione”, un’altra delle infinite contraddizioni di questa Italia che da un lato non vuole cambiare e dall’altro cambia più rapidamente e profondamente di quel che si possa pensare. Di che si tratta? “L’Italia si colloca al primo posto tra tutti i paesi dell’Unione europea per numero di cittadinanze concesse (213.567 nel 2023). Con un numero molto più alto delle circa 181.000 in Spagna, 166.000 in Germania, 114.000 in Francia, 92.000 in Svezia, le acquisizioni della cittadinanza italiana nel 2022 ammontavano al 21,6 per cento di tutte le acquisizioni registrate nell’Ue (circa un milione). E il nostro paese è primo anche per il totale cumulato nell’ultimo decennio (+112,2 per cento tra il 2013 e il 2022)”. Così scrive il rapporto. Negli ultimi dieci anni sono stati integrati quasi milione e 500 mila stranieri, anche se il 57,4 per cento degli intervistati sostiene che non si è davvero italiani se non si ha genitori anch’essi italiani. Ancora una volta la realtà e la sua rappresentazione collidono nell’Italia dei mille campanili.
L’industria va giù e il turismo va su, gli italiani non leggono, s’informano solo sul telefonino, sono dei somari in matematica, non sanno chi sia Giuseppe Mazzini (un politico della Prima Repubblica secondo il 19,3 per cento) e così via. L’Italia spaccata tra nord e sud, tra città e campagne ormai in aperto divorzio, i giovani divisi tra “disagiati e salvati”, i lavoratori che mancano in tutti i mestieri (“nel 2023 la quota di figure professionali di difficile reperimento rispetto ai fabbisogni delle imprese è arrivata al 45,1 per cento del totale delle assunzioni previste, era pari al 21,5 per cento nel 2017”). E ancora l’esplosione della spesa sanitaria e l’insufficienza ormai palese del sistema pubblico, la scala sociale bloccata, la lontananza dalla partecipazione politica che ormai diventa patologica, il pessimismo sull’Unione europea e sull’Occidente (due terzi pensano che sia colpevole delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente). Un panorama in parte noto, in parte nuovo, sempre allarmante.
Siamo “intrappolati nella sindrome italiana” cioè “la continuità nella medietà”. Tuttavia “dopo anni in cui la società italiana è rimasta alla finestra si affacciano all’orizzonte un nuovo scenario mondiale e un nuovo scenario tecnologico” dai quali è impossibile restare fuori, scrivono le considerazioni generali. E’ un dilemma che si pone non solo all’Italia, in fondo anche la Francia oscilla tra nostalgia del tempo perduto e paura del tempo nuovo. Al di qua e al di là delle Alpi il diffuso malessere sociale è molto simile, pur tenendo conto di tutte le tradizionali differenze. Il Censis vede “un paese che sente l’affanno del rimettersi in movimento”, eppur si muove. In quale direzione non è chiaro, anzi “resta l’antico vizio di una scarsa capacità di direzione, di un’assenza di traguardi e di coraggio per affermarli”. Dopo aver volato a lungo rasoterra, auscultando le vibrazioni come gli scout indiani, l’istituto fondato da Giuseppe De Rita chiede di “dare direzione allo sviluppo, immaginare una rotta e seguire una tabella di navigazione”, per quanto difficile. E si cimenta in un giudizio politico: “Una società aperta porta con sé dei rischi” e con essi “anche preoccupazioni relative alla perdita di sicurezza, alle limitazioni alla redistribuzione delle rendite, all’ibridazione culturale”. Tutti rischi che “la nostra società non sembra disponibile ad assumersi, ma che, nello stesso tempo, non può permettersi di non correre se vuole crescere e non più galleggiare”. L’anno che si chiude “lascia l’amaro sapore di una politica tutta giocata sul gusto di non fare”. Quello che si apre sarà l’anno del fare?